Dalle primarie è arrivata una forte domanda di novità, ma è caricaturale pensare che questo porti a un radicalismo lontano da una cultura di governo
Parafrasando Croce non possiamo non dirci riformisti.
Il problema è stabilire in che senso. Si deve diffidare di chi se ne intesta il monopolio. Alla lettera riformisti sono coloro che mirano a dare forma nuova ai rapporti sociali.
L’opposto del conservatorismo o di politiche meramente adattive.
È presto per farsi una idea precisa del profilo del PD a guida Schlein.
Ci sembra tuttavia caricaturale la rappresentazione di esso come votato a un arroccamento identitario, a rinnegare lo statuto ideale pluralistico del partito, all’abbandono dell’ambizione a fare da major party di una coalizione alternativa alla destra, a praticare un radicalismo refrattario a una cultura di governo. Vero è che dagli elettori e dal popolo della sinistra che si sono espressi nelle primarie (uno strumento un tempo concepito come identitario proprio da chi oggi sembra dolersi del loro responso) è venuta una domanda di novità e di discontinuità rispetto a un PD pesantemente acciaccato: l’avvertenza a non spacciare il moderatismo per riformismo, a non indulgere a una subalternità all’ideologia neoliberista (per altro in declino) e a un atlantismo oltranzista, a non ridurre il PD a partito dell’establishment. Al punto da fare assurgere i governi tecnici ela loro agenda a stella polare della propria politica anziché a una parentesi necessitata. Una resa della politica al mito della tecnica e della “soluzione unica”, senza competizione democratica. Con la rinuncia del PD a configurarsi come “parte”, che seleziona le istanze sociali e i valori da privilegiare, ancorché nel quadro dell’interesse generale. Un partito “pigliatutto” che, come si è visto, rischia di non piacere a nessuno.
Il pluralismo delle culture non può risolversi in un alibi che esonera dal compito di darsi una identità politica e una conseguente linea programmatica chiare e riconoscibili. Non è riformista rifiutarsi di guardare in faccia la realtà, reiterare stancamente gli schemi del passato. Si pensi alla parabola (e all’approdo) di Renzi, a lungo beniamino dei “riformisti” PD. Tra le tante, nuove coordinate dello scenario due in particolare meritano attenzione: a) il cambio di fase, una temperie culturale che si è messa alle spalle il mito della globalizzazione (con ciò che ne segue nell’equilibrio dinamico tra mercato, società e Stato e nella dilatazione di disuguaglianze ed esclusione); b) un sistema politico frammentato, sempre più lontano da un assetto bipolare e dunquela consunzione del paradigma della democrazia maggioritaria.
Un sistema nel quale ai partiti si chiede di marcare una propria identità politica, senza la pretesa della “reductio ad unum” di ciascuno dei due campi antagonisti. Poi si stringono alleanze, ma appunto tra partiti politicamente caratterizzati.
Meloni docet. Lo stesso Carlo Cottarelli, nel lasciare il PD, con onestà intellettuale, ha riconosciuto che la Schlein non poteva che dare un profilo di sinistra al partito. Tale esigenza di caratterizzazione non è priva di conseguenze sul piano programmatico. Due soli ma qualificanti esempi. Sulle politiche economiche e sociali certo – non si faccia torto all’intelligenza – nessuno misconosce l’esigenza di ricette tese a produttività e crescita, ma a qualificare politicamente il PD ha da essere la giustizia sociale e ambientale. Con una centralità della politica fiscale in chiave redistributiva. Non bastano gli eventi estremi a istruirci circa un cambio di paradigma? Sulle riforme costituzionali è lecito attendersi che a) la giusta cura per la stabilità dei governi sia accompagnata e bilanciata da quella per la rappresentanza (di partiti e parlamento) oggi clamorosamente f erita dall’astensionismo di massa e dunque la cautela verso processi di verticalizzazione e personalizzazione dei verticiistituzionali (significativo che persino Veltroni confessi il suo ripensamento al riguardo); b) la vigilanza su forzature o strappi da “dittatura della maggioranza” su materia costituzionale. È significativo l’allarme levato dal riformista Rino Formica, che contesta in radice la legittimità del mandato rivendicato dalla destra a riscrivere larga parte della Costituzione e si spinge a sostenere di elevare ai due terzi il quorum per emendarla.
Curiosa e subalterna l’idea che per meritare la nomea di riformisti ci si debba conformare al mantra del cambiare senza discernimento, di ostentare collaborazionismo (persino nella Commissione Calderoli), di prestarsi al gioco di un baratto politico interno alle destre: presidenzialismo versus autonomia divisiva. La Costituzione non è materia cui non si addice lo schema conservatori (destra)-riformatori (sinistra). Merita rammentare che, nella Carta dei valori del PD delle origini, sta scritto che il PD è il partito della cura per la Costituzione e che mai e poi mai si sarebbe fatto l’errore di riformarla a colpi di maggioranza di governo. Poi venne Renzi e fece il contrario.