Se lo abbiamo visitato – o anche solo se ne parliamo spesso – ci convinciamo di conoscerlo. Le nostre convinzioni sono soprattutto proiezioni di figure interiori attribuite alla realtà oggettiva: fatta di terra, vegetazione, acqua, case, soprattutto di persone. Non viceversa.
Se il paese è noto nel mondo, tutti ne hanno una immagine e una opinione, anche se non sanno neppure in quale emisfero si trova. In pochi casi, però, circolano tanti luoghi comuni quanto a proposito dell’Italia. Anche i popoli più lontani mostrano un interesse per il paese: in genere benevolo, come se nell’inconscio del mondo sopravvivesse immutata la curiosità che vi portò Goethe. Parlando degli Stati Uniti, quasi tutti rivelano un moto di attrazione o di rifiuto collegato alla politica. Per l’Italia, invece, c’è quasi sempre un interesse genuino, poco influenzato da ideologie. Come se l’immagine del mondo si modernizzasse, mentre un nucleo di questa “Italia” continuasse a corrispondere a una incorruttibile “Arcadia”: parola che non a caso Goethe pose all’inizio del suo libro di viaggio. Stiamo dunque parlando di una fantasia collettiva. Purtroppo, molti scritti sull’Italia si limitano a cavalcare dei luoghi comuni. La condotta del paese è giudicata negativamente, ma il sentimento generale in cui si riassumono è benevolo, addirittura affettuoso.
Cercheremo di parlare dell’Italia da una angolazione psicologica. Se è permesso un paragone alto, come nei testi di Alexis de Tocqueville sull’America, di Octavio Paz sul Messico, di Norbert Elias sui tedeschi, che trattano i fenomeni lunghi dei rispettivi paesi. Questo compito non richiede un linguaggio particolare: il primo dei tre studi fu condotto quando ancora non esisteva la psicoanalisi. Può farlo un italiano? Una qualità che l’osservatore straniero critica nel carattere nazionale è l’autoindulgenza. Eppure nei principali testi di italiani sul proprio paese – Giacomo Leopardi, Umberto Eco, Giulio Bollati – emerge soprattutto una devastante severità. Le singole opere in cui consiste la saggistica sull’Italia sono amare, ma l’edificio che compongono nel loro insieme, sorprendentemente, non lo è. Nel paese Italia si slitta a poco a poco dai valori della famiglia a quelli del familismo, dalla socializzazione alla corruzione. Ma a essa si concede sempre una possibilità di redimersi. Forse un modo per definire la cosa che chiamiamo Italia è: il paese a cui si vuole lasciare sempre un’altra opportunità.
Nelle immagini mentali, ogni paese è prima di tutto un territorio. Viceversa un territorio non è ancora un paese. Per diventarlo, la storia deve dirci che corrisponde a uno Stato. (…) Diversamente dalla geografia, gli Stati si avvicendano nel tempo. Per non confondersi nella loro molteplicità, chi vuol capire l’Italia farà un passo indietro, tornando alla geografia. Le forme geografiche non aiutano le immagini mentali di tutti i paesi. La Russia è troppo grande e articolata. La Grecia è piccola, ma la sua forma è così complessa da sfuggire a una definizione: secondo Toynbee, fu questa complessità a stimolare la nascita della cultura europea proprio lì.
Due paesi ricevono una indiscutibile definizione geografica. La Francia è «l’esagono», l’Italia «lo stivale». (…) Lo stivale è la più riconoscibile e più antica fra le definizioni geografiche del mondo: lo ritroviamo persino nelle mappe di Tolomeo, disegnate intorno al 150 dopo Cristo.
Questa riconoscibilità, che dovrebbe evitare equivoci, in realtà ne nasconde altri. L’equivalenza fra «Italia», «penisola» e «stivale» è una lettura possibile, ma fuorviante: sottintenderebbe che quasi metà degli italiani non sono tali. Dopo le guerre con gli altri popoli italici la cittadinanza romana venne estesa a tutta la penisola. A ovest, Roma arrivava al fiume Magra. A est, fino al Rubicone. Cesare aveva il comando delle legioni finché stava nella Pianura Padana, che allora si chiamava Gallia Cisalpina e non era stata ancora incorporata in Roma. Non poteva attraversare in armi quel piccolo corso d’acqua. I soldati erano a sua disposizione per combattere popoli ostili: portarli in territorio romano sottintendeva usarli per i propri scopi e conquistare il potere. Sospettando intenzioni ostili del Senato, trasgredì: guadò il fiume, prese il potere e fece la storia. L’attraversamento rese immortale il Rubicone, corso d’acqua così insignificante che non è neppure certo se corrisponda a quello di oggi o a un fiume vicino che, significativamente, si chiama Pisciatello. Anche il Magra è un fiumiciattolo d’acque così scarse da meritare quel nome, e per giunta è breve. (…) Malgrado questa esiguità, il Magra è rimasto a lungo una barriera naturale. (…) In realtà, la linea tracciata dai due dimenticabili fiumi, Magra e Rubicone, è indimenticabile perché corrispondeva al confine tra romani e barbari. La scelta di Cesare l’ha trasformata in emblema. La sua riconoscibilità sulle carte, e il suo legame con eventi storici «pesanti», hanno contribuito a perpetuarla nell’immaginario. Dunque italiani sono quelli che abitano nella penisola, mentre gli altri sono cisalpini? Le forme mentali inconsce ci influenzano quanto o a volte più di quelle coscienti. Purtroppo, questo concorda con alcuni stereotipi di inconciliabili diversità fra l’Italia peninsulare e quella continentale. (…) Le diversità regionali sono un segno di barriere naturali ma anche di una diversa storia politica. (…)
Se l’Italia è sacra e corrisponde alla penisola, per il senso comune sottinteso cosa è quella non peninsulare? Una sua estensione meno sacra? Secondo Napoleone, la geografia è destino. Se i non peninsulari fossero meno italiani perderebbero una parte d’identità collettiva: che è necessaria alla autostima di tutti i popoli. I movimenti autonomisti o separatisti dell’Italia moderna hanno riguardato le isole o la linea Magra-Rubicone: sono fenomeni «lunghi» e geografici insieme. Senza che nessuno lo abbia voluto, l’estrema identificabilità della penisola – pendente e dipendente dall’Europa – compensa in silenzio la difficoltà a identificare il paese con uno Stato. Quando si dice Italia, nell’inconscio collettivo si risveglia una immagine geografica, prima che politica. È una definizione privativa, che sottintende una mancanza? Sembra un fatto non recente, che risale alla pubblicazione delle prime carte geografiche attendibili. Alla voce «Italia» l’Enciclopedia Italiana Treccani ne spinge le origini ancora più in là: «l’individualità dell’Italia entro la cerchia delle Alpi e dei suoi mari, non è affatto un concetto puramente geografico, ma una verità universalmente avvertita e quasi connaturata nell’espressione stessa Italia». Piuttosto ideologicamente, per la neutralità che ci si attende da un’enciclopedia, chiama poi la parola Italia un «sacro nome» e attribuisce al paese, nei suoi «confini naturali», un’area di 321700 kmq. La voce dell’Enciclopedia è stata scritta nel 1933, quindi al vertice dell’era fascista. Ritrovarla intatta può far pensare che, come hanno scritto Eco e Bollati, il fascismo sia qualcosa di permanente. Mettere la geografia al centro di una discussione sull’Italia ha però anche una ragione psicologica: permette di sviare dalla politica e dalla storia.
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