Quando ho confessato tutte le mie perplessità su Anora a un amico che, invece, lo aveva amato molto, lui mi ha risposto dicendomi: va bene tutto ma non toccarmi quel finale, mi ha spezzato, mi ha davvero fatto soffrire. Per questo, dunque, aveva trovato il film così bello.

Su questo ero d’accordo con lui: la disperazione della seconda parte di Anora era sembrata anche a me la parte migliore del film. Anche la più inaspettata: l’avevo cominciato convinta che avrei visto una commedia, una pretty-woman più urban, riprogrammata. Ero pronta al maschilismo, ero pronta al classismo; non ero pronta invece alla disperazione; quindi forse non mi sono goduta Anora come avrei potuto; e forse non ho permesso al regista Sean Baker di portarmi dove avrebbe voluto lui.

La domanda però mi rimane: riesco a considerare bella una cosa che mi fa soffrire? O meglio: quanta sofferenza riesco a concedere a un prodotto artistico a cui non riconosco lo statuto del Capolavoro? Aggiungo inoltre che, in generale, non credo che i capolavori facciano davvero soffrire. Anche quando sono drammatici, disperati, tristissimi, i capolavori danno la gioia del capolavoro. Non rendono tristi, né felici. Provocano estasi.

A qualcuno piace soffrire. A me no. Spesso ai film che propone Mubi preferisco senza dubbio le perfette, inarrivabili, prelibatezze che confeziona Shonda Rhimes.

Di recente però mi sono ritrovata a soffrire per la lettura di un libro che non ho avuto alcuna intenzione di mollare. Il libro è Autoritratto di Édouard Levé, appena uscito con Quodlibet per la traduzione di Martina Cardelli. Levé è un personaggio unico e affascinante. Artista a trecentosessanta gradi: non solo scrittore, ma anche fotografo e pittore. Irrequieto. Amato da Carrère che così ne ha scritto: «Sono andato a prendere Autoritratto e ho iniziato a leggerlo. Svegliandomi, la mattina dopo, ho pensato che era proprio la lettura che volevo fare, e che Édouard, lì dove si trovava, aveva più bisogno di me di quanto ne avesse Tolstoj».

Universalità

Ricorda sempre Carrère che Levé si suicidò tre giorni dopo aver consegnato al suo editore francese il manoscritto di un libro intitolato Suicidio. Era il 15 ottobre 2007. Anche Autoritratto esprime già nel titolo il suo intento programmatico. L’autore non vuole fare altro che cercare di definire ciò che lui è, attraverso ciò che ha fatto, visto, vissuto, amato.

L’autoritratto si apre così: «Da adolescente pensavo che La vita, istruzioni per l’uso mi avrebbe aiutato a vivere e Suicidio, istruzioni per l’uso a morire. Ho trascorso tre anni e tre mesi all’estero. Preferisco guardare a sinistra. Ho un amico che gode nel tradire. La fine di un viaggio mi lascia lo stesso amaro in bocca della fine di un romanzo. Dimentico ciò che non mi piace. Forse, senza saperlo, ho parlato con qualcuno che ha ucciso qualcuno. Guardo sempre nei vicoli ciechi. Quel che c’è alla fine della vita non mi spaventa. Non ascolto mai davvero ciò che mi dicono. Mi stupisco quando qualcuno che non mi conosce bene mi chiama con un diminutivo. Ci metto molto tempo a capire che qualcuno si sta comportando male con me: trovo strano che possa accadermi, il male è in qualche modo irreale».

Questo non è solo un incipit: è così, con questa semplicità lapidaria, immediata, che prosegue in tutto il libro. «Non spiego. Non giustifico. Non classifico» afferma l’autore. Una lettura che mentre ci porta pian piano a conoscere chi scrive, ha la forza che solo pochi (capolavori?) hanno di parlarci di ciascuno di noi. Di sembrare un autoritratto universale: di un’epoca? Di un uomo? Di un sentimento del vivere? Non importa.

Ci viene da dire leggendo: questo per me non vale, ma questo invece non avrei saputo dirlo meglio di così. Come la perfetta descrizione del suo rapporto con il cibo: «Riguardo al cibo, preferisco il salato al dolce, il crudo al cotto, il croccante al molle, il freddo al caldo, il profumato all’inodore». Oppure quando dice cose che sono tristemente vere per tutti: «Tra la solitudine del ventre di mia madre e quella della mia tomba avrò frequentato molte persone».

L’unica strada

Nella totale apparente casualità del susseguirsi di queste affermazioni, l’opera resta sempre coesa, mai superflua. Leggendolo non ci si può fermare mai. È urgente, affannoso.

Non ci sono capitoli né paragrafi. «Potrò dire una sola volta nella mia vita, senza mentire: sto morendo. Il giorno più bello della mia vita è già passato, forse». Chiude Levé. Una chiusa che ricorda Proust: «I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto».

Oppure D’Annunzio: «E s’io rievoco la mia più grande gioia, questa gioia è già passata».

Il protagonista di questa autobiografia però, alla fine, mette un “forse”. Quel “forse”, più che aprire alla speranza, è il marchio di un’insicurezza pervasiva, di un’inconsistenza radicale, vere protagoniste di questo libro. Leggendolo non si può che star male. Non interviene alcuna estasi a portarci altrove. Ma giunti alla fine ci verrà il dubbio che questa non sia altro che l’unica strada, lontana dall’abbagliante chiarezza dei capolavori, per raccontare davvero l’uomo contemporaneo che noi stessi siamo.

Anche io, come Levé, «quando mi contraddico provo un piacere doppio: quello di tradirmi, e quello di avere una nuova opinione».

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