ALESSANDRO BARBERA
Da un lato la Francia e l’Italia, con un debito pubblico ben al di sopra della media europea, dall’altra la Germania. In mezzo la presidenza spagnola, che tenta la mediazione. Domani i ministri finanziari europei si riuniscono per discutere di nuovo un dossier decisivo per il futuro dell’Italia e del governo Meloni. Da settimane i governi tentano di trovare un accordo per dare all’Unione nuove regole fiscali dopo la lunga moratoria iniziata con la pandemia, ma le probabilità di un accordo al momento sono pari a zero. Sia Roma che Parigi partono da posizioni troppo distanti rispetto alla proposta della ministra spagnola Nadia Calvino, che ha fin qui cercato di superare i veti del blocco nordico alla proposta della Commissione europea. «Speriamo di trovare almeno un’intesa politica entro la fine dell’anno», spiegano tutte le fonti interpellate a Bruxelles. Ma con il passare dei giorni lo scenario più concreto è invece quello dello stallo. «Se le cose non cambiano, la nostra firma non può esserci», ammette una fonte del Tesoro.
La trattativa sulle nuove regole di bilancio è uno spaccato significativo dei problemi che attraversano il vecchio continente. Il primo: la campagna elettorale di giugno. L’avvicinarsi della scadenza sta creando divisioni fra Paesi e all’interno degli stessi governi nazionali. Emmanuel Macron, in crisi di consenso, deve fare i conti con la pressione della destra antieuropeista. Olaf Scholz, dopo il pessimo risultato dei socialdemocratici alle elezioni regionali in Assia e Baviera, è a sua volta in crisi di consenso. Dentro la grande coalizione ognuno tira acqua alle proprie ragioni, a partire dal ministro delle Finanze liberale Christian Lindner, che ai tavoli europei gioca la parte del falco. Le elezioni in Spagna e Polonia hanno cambiato gli equilibri a favore dei progressisti, di Pedro Sanchez e dell’ex presidente del consiglio europeo Donald Tusk, ma per via delle regole costituzionali mancano ancora governi nel pieno dei poteri. Ai tavolo europei manca la voce dell’Olanda, che va al voto il 22 novembre. I vertici della Commissione, pur spingendo per un’intesa ed essere pronti a convocare un Consiglio straordinario dei capi di Stato «in qualunque momento», sono considerati espressione di equilibri politici superati. Non solo: per la prima volta da almeno un lustro, l’asse franco-tedesco è spezzato. E non solo per l’uscita di scena di Angela Merkel e del feeling con Macron. Dopo la pandemia il debito francese è alla soglia del 110 per cento in percentuale al Pil, più vicina al 140 italiano del 65 tedesco. Vero è che le autorità contabili tedesche hanno scoperto che i numeri sono un po’ truccati, ma la Germania – almeno sulla carta – potrebbe trovare conveniente tornare alla vecchia regola del tre per cento. Poi ci sono fattori contingenti che non aiutano: la socialista Calvino, candidata alla presidenza della Banca europea per gli investimenti, ha bisogno del sostegno tedesco. La sua avversaria – la commissaria liberale danese Margrethe Vestager – vuole quello della Francia.
La domanda che circola nelle cancellerie è: che accadrà se entro Natale non si troverà l’intesa? Per i tedeschi e i suoi alleati si dovrebbe tornare al vecchio patto di Maastricht che imporrebbe di tendere al tre per cento di deficit rispetto al Pil e al 60 di debito. Per l’Italia uno scenario da incubo al quale però credono in pochi. «Nelle attuali condizioni di recessione nemmeno Berlino sarebbe in grado di rispettare quei parametri», dice la fonte del Tesoro. La via d’uscita sono le linee guida presentate a giugno dalla Commissione e preparate dall’italiano Paolo Gentiloni. Si tratta, per dirla semplice, del margine che ha permesso al ministro Giancarlo Giorgetti di varare una legge di Bilancio per l’anno prossimo con un deficit del 4,3 per cento, e alla Francia del 4,4. Linee guida che – rebus sic stantibus – valgono fino al 31 dicembre 2024.
Dopo la bocciatura dei tedeschi alla proposta di riforma della Commissione, che prevedeva trattative bilaterali con ciascun Paese, ogni tentativo di passi avanti con meccanismi numerici si è arenato di fronte ai veti reciproci. Non è bastata nemmeno l’ipotesi di scorporare alcune spese, da quelle militari alle poste dedicate al Pnrr: ciascun governo tira la coperta dove conviene. In base alle ipotesi attuali, l’aggiustamento necessario a tornare dentro alle regole per l’Italia dovrebbe avvenire entro il 2026. Una soluzione ragionevole, che però non fa i conti con la crescita debole e l’eredità dei superbonus edilizi. Quest’ultimo è il buco nero nei conti italiani: il Tesoro stima di dover imputare a quella voce venti miliardi di euro l’anno di qui al 2027, un punto di disavanzo in più all’anno. Per i tedeschi un punto di debito in meno all’anno è uno dei passaggi irrinunciabili della riforma. Ma tenendo conto di quell’eredità, per l’Italia significherebbe garantire un aggiustamento di bilancio annuo più o meno pari al doppio di quello che oggi è valutato sostenibile. Per Giorgetti l’equilibrio trovato fin qui, con una Finanziaria per due terzi in deficit e un terzo finanziata con tagli e tasse, è delicatissimo. Se la legge di Bilancio in Parlamento venisse cambiata, l’Italia a quel tavolo non avrebbe più alcuna legittimazione: per questo il ministro è intenzionato a tenere il punto coi partiti. Poco importa se si tratta di ammorbidire la stretta alle pensioni o l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi. Di qui in poi si imporrà semmai più austerità: a gennaio sarà l’ora delle privatizzazioni. Quella di Ferrovie, il cui iter durerà un anno e mezzo, e probabilmente di un pacchetto delle azioni di Poste ancora in mano allo Stato.