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20 Gennaio 2023Non più una criminalità guidata dai padrini e dalla lupara, ma reticolare e orizzontale, da contrastare con una iniziativa intellettuale e politica simile a quella messa in atto, un tempo, dai piani regolatori delle città
Lo sciame di polemiche, sospetti e scoperte, che segue inevitabilmente la cattura di un boss della mafia, si è riprodotto immancabilmente con l’arresto, dopo una trentennale latitanza, di Matteo Messina Denaro. Anche questa volta rimangono avvolte in un velo di incredulità le circostanze e il contesto in cui il boss mafioso è stato preso. Appaiono soprattutto inverosimili le condizioni e le modalità della sua latitanza, praticamente sotto casa, con una vita sociale per nulla sacrificata, e una protezione e assistenza che ha toccato livelli alti della scala sociale dell’intera regione. In questo brusio di domande e mancate risposte, sarebbe forse utile riflettere anche sulle dinamiche politiche, che riguardano proprio la struttura di potere di Cosa nostra, per intuirne il nesso che lega l’evoluzione del fenomeno mafioso con l’arresto dei suoi capi.
Ci spiegano gli esperti, e comunque era questa la lezione di Leonardo Sciascia, che quando cade un capo mafioso significa che l’equilibrio che lui garantiva è cambiato. In questi lunghi anni, in cui abbiamo avuto al centro della nostra attenzione i padrini – da Riina a Provenzano, alla primula rossa Messina Denaro –, la geografia e la geopolitica dell’intero universo criminale, una vera e propria deep society, che si è incontrata e combinata con il deep state, è profondamente mutata.
Roberto Saviano, in questi giorni, ha aggiornato la mappa, raccontandoci di come la ’ndrangheta calabrese stia soppiantando, e non da ora, la ragnatela mafiosa; e di come l’insieme delle diverse associazioni criminali, con la camorra campana e la “sacra corona unita” pugliese, stiano penetrando profondamente nei gangli finanziari e industriali – non solo italiani. Un recente studio della Banca d’Italia stima in un 2% del Pil l’impronta criminale sull’economia italiana, con un giro d’affari che arriva alla strabiliante quota di trentotto miliardi. Le interconnessioni, con i circuiti dell’intermediazione finanziaria e con le nuove aree di business, compresa la nuova economia digitale, sono davvero pervasive e consistenti.
Ma il punto che appare oggi rilevante, in questo processo di mafiomorfosi, come lo potremmo definire, riguarda proprio la gerarchia e articolazione del potere all’interno della sfera criminale. In sostanza, si può dire che la mafia stia decentrando sia le modalità operative, sia le relazioni istituzionali e politiche, e di conseguenza anche la sua struttura di potere e funzionamento. Che sempre meno si identificherà con quella cupola centralizzata, a cui la letteratura ha ormai abituato il nostro immaginario.
Diciamo che i capi vengono arrestati perché non sono più vertici ma solo simboli. Più di un osservatore ha avanzato l’ipotesi che, dopo l’arresto dell’ultimo corleonese – ossia di quella corrente, per lungo tempo vincente, della mafia sanguinaria e stragista che ruppe la collusione persuasiva con la politica e le cupole di potere istituzionali, lanciando una sfida aperta allo Stato –, dovremmo ora osservare, in maniera più visibile, come il vertice mafioso stia mutando la geometria e il linguaggio.
Quella guerra, che iniziò con l’infinita stagione delle stragi nei primi anni Ottanta, e proseguì quasi indisturbata per tutto il decennio successivo, con i massacri di Falcone e Borsellino e con le bombe a Milano, Firenze e Roma, fu condotta con una militarizzazione completa dell’infrastruttura mafiosa. Proprio i corleonesi ristrutturarono verticalmente l’organizzazione territoriale, arroccandosi nei feudi di controllo, come quello a ridosso di Mazara del Vallo, dove ha potuto vivere indisturbato Messina Denaro. Le relazioni con le altre potenze criminali internazionali – dai sudamericani ai cinesi, alle cosche russe – furono definite a partire da un rafforzamento del dominio sulla Sicilia e delle interlocuzioni istituzionali che si offrivano al fiancheggiamento. In questo Saviano scorge giustamente un elemento di lentezza, se non proprio di arretratezza, della mafia rispetto ai clan calabresi, che da molto tempo, ormai, non hanno figure di controllo, né cupole di pianificazione, ma management di singoli settori verticali, che gestiscono l’ottimizzazione del business più che esercitare un controllo territoriale. Mentre a Palermo la base materiale della strategia militare era, inevitabilmente, il controllo centrale, e la conseguente suddivisione, delle fonti di arricchimento che alimentavano quella mafia: affari pubblici, circuito della droga, taglieggiamento delle attività private.
Da almeno una decina di anni, però, anche questa dinamica ha dovuto aggiornarsi. L’elemento che ha costretto persino i mafiosi a rivedere radicalmente la propria identità organizzativa è stato l’irruzione dei saperi come elemento costitutivo dell’autonomia della piovra, nella sempre più articolata struttura sociale. Diciamo che si è verificata una fase di modernizzazione traumatica non dissimile da quanto accadde nel corso della guerra, con la contrattazione con gli americani che, invadendo la Sicilia, usarono proprio i vecchi clan mafiosi come filtri e accompagnatori per sistemare le retrovie, man mano che avanzavano. Quella ibridazione, rappresentata dal ritorno a Palermo di Lucky Luciano, accelererà il processo di innovazione, portando in pochi mesi alla sostituzione dei vecchi capi mandamento agrari con figure capaci di leggere e gestire un bando pubblico.
Oggi il tornante che sta modernizzando la mafia è la smaterializzazione delle attività economiche; pensiamo alla riduzione degli insediamenti sul territorio siciliano di industrie e centri di attività commerciale, che spinge i mafiosi a trovare diversi assetti operativi, ma soprattutto a riconoscere nuovi profili di leadership. Sempre meno la digitalizzazione dell’economia – e più in generale delle stesse forme organizzative, che si avvalgono delle più sofisticate tecniche di connessione e comunicazione digitale – rende possibile affidarsi a competenze esterne.
Proprio la dinamica della cattura di Messina Denaro, con il monitoraggio dei suoi dati clinici e la sorveglianza dei sanitari che lo curavano, ha dimostrato come non siano più sicuri gli appoggi a competenze e saperi esterni. Gli esperti, nelle nuove tecnologie relazionali, non possono essere disgiunti dai decisori. Questa è la lezione che la mafia sta imparando, a differenza della politica che ancora arranca. Ma gli esperti – questa è l’altra lezione che viene, per esempio, dalla stessa guerra in Ucraina – non possono essere subordinati e militarizzati: devono avere autonomia e sovranità sui propri livelli operativi.
Proprio la convergenza fra questi fenomeni – la digitalizzazione dell’organizzazione, che non può non basarsi su legami virtuali e di rete, con la smaterializzazione dell’economia, che porta i centri commerciali a essere sostituiti dalle piattaforme di e-commerce – costringe la mafia a diventare una struttura di net crime, di criminalità reticolare e orizzontale. Lungo questi nuovi percorsi, ritroviamo oggi i nuovi mafiosi, come già accade per gli uomini della ’ndrangheta, insediati nei gangli delle nuove reti di telemedicina, di e-banking, di scambio e commercio dei dati. Una mafia digitale non potrà essere una mafia corleonese, guidata dalla lupara, ma inevitabilmente sarà una mafia computazionale, governata dal sapere e dalle relazioni cognitive.
In questo salto, bisogna trovare la forza per intercettarla. La lotta per la trasparenza delle forme digitali, per la condivisione dei dati, per la socializzazione delle piattaforme e degli algoritmi, è anche una lotta per contrastare le nuove forme di criminalità digitale, che allignano proprio negli antri oscuri dei monopoli e della riservatezza proprietaria. Dobbiamo, in questo, recuperare il respiro che portò negli anni Sessanta la politica, la sinistra in particolare, a contrastare l’espansione speculativa delle criminalità nelle città, lungo i crinali delle forme rapaci di edilizia e residenzialità, con quel grande movimento intellettuale che fu rappresentato dai piani regolatori. In quell’occasione, competenze e saperi si incontrarono con una capacità di sensibilizzazione civile e politica del territorio, che ridusse gli spazi di espansione e rese visibili i livelli di continuità e complicità. Oggi siamo a un nuovo passaggio, in cui la politica deve tornare a essere strumento di vivibilità.