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31 Agosto 2024Come si vive in un paese trasformato in un albergo di lusso
1 Settembre 2024dal nostro inviato Luca Valtorta
Londra. «All the things we love we love we love, we lose» (Tutte le cose che amiamo, le perdiamo). Recitava così, come in una fiaba malvagia, una canzone intitolata Anthrocene (scritto in questo modo) in Skeleton Tree, il disco del 2016 che apriva le porte di un dolore indicibile per Nicholas Edward Cave, nato in Australia nella quasi impronunciabile Warracknabeal il 22 settembre del 1957. Un artista che da sempre gioca una partita diversa da chiunque altro: partendo dal punk con i Boys Next Door e poi con i Birthday Party, fin dai primi anni Ottanta Nick Cave ha sviluppato con i Bad Seeds una musica complessa e viscerale che mescola blues, post punk e canzone d’autore (nel 2000 gli viene assegnato anche il premio Tenco). Ma Cave non è solo questo: compare ne Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, è protagonista del film Ghosts… of the Civil Dead di John Hillcoat o di film biografici come 20.000 Days on Earth e One More Time with Feeling; ha realizzato colonne sonore (La proposta, The Road) ed è autore di romanzi strani e pervasi da un senso del sacro che Pasolini avrebbe apprezzato comeE l’asina vide l’angelo o La morte di Bunny Munro, storia visionaria del rapporto tra un padre devastato e il giovane figlio. O, ancora, di saggi come Stranger than Kindness e Fede, speranza e carneficinae di volumi di poesie come The Sick Bag Song. Una vita intensa piena di cadute quella di Cave — un breve periodo in prigioneper un furto proprio mentre il padre muore in un incidente d’auto, dipendenze da alcol ed eroina — ma anche di rinascite: ha una routine di lavoro continuo e meticoloso (si è recato per anni tutti i giorni in uno studio che chiama “ufficio” per scrivere), fa concerti leggendari, sforna progetti e dischi uno dietro l’altro, tra cui capolavori come The Boatman’s Call o Murder Ballads.
A partire nel 2015, tutto cambia. Il 15 luglio un avvenimento atroce stravolge per sempre la sua vita e la sua musica: la notizia che il figlio Arthur, uno dei due gemelli — l’altro si chiama Earl — avuti con la modella e stilista Susie Bick, è morto precipitando da una scogliera. L’album Skeleton Tree, che era in quel momento in lavorazione con il polistrumentista e amico Warren Ellis, suona come una premonizione dal momento che diversi brani erano già conclusi: è il più rarefatto e lontano dal mondo mai realizzato da Cave. E il successivo Ghosteen, che esce nel 2019, è ancora più minimale: un capolavoro che sembra arrivare da un altro pianeta in cui i testi non raccontano più storie come un tempo ma sensazioni, stati d’animo, colori. I colori di un arcobaleno che solo all’apparenza potrebbe sembrare perfettamente normale, in realtà capaci di illuminare percorsi oscuri e angoscianti. Carnage, l’album successivo senza i Bad Seeds e con il solo Warren Ellis, continua quella strada. Oggi con Wild God si apre invece un’altra porta, un capitolo nuovo.
L’appuntamento con Nick Cave è presso un hotel che sembra una casa a Londra, nel quartiere di Chelsea. Non ha insegna ed è elegante in modo classico, quintessenza della concezione inglese di un lusso non appariscente. Il silenzio è interrotto solo dal canto degli uccellini in giardino, finché passi veloci e decisi risuonano dalle scale e una figura allampanata appare da una porta che conduce a una stanza riservata. Entro. Nick Cave si è appena seduto su un divano beige. Magrissimo, i capelli troppo neri che tinge da anni senza nasconderlo: «Quando ti imbarchi in un tour, metti le tue bottigliette di colorante e parti sapendo che andrai in città che non avrai il tempo di visitare». L’aspetto è giovane, scattante, ma se osservi bene le rughe e le pesanti occhiaie, raccontano lunghe stagioni di notti insonni, antiche dipendenze e un grande dolore.
Gli ultimi sono stati anni di perdita: il figlio Arthur, la madre Dawn, l’amico produttore Hal Willner, i musicisti Shane MacGowan, Mark Lanegan, Mark Stewart (fondatore delPop Group, band amatissima e fondamentale per la formazione di Cave) e Chris Bailey (cantante degli australiani The Saints), compagna di un tempo, musicista e amica Anita Lane (a cui è dedicato la delicata e intensa How Wonderful She Is nel nuovo disco). E, nel maggio del 2022, meno di sette anni dopo quella di Arthur, la scomparsa del figlio maggiore, Jethro Lazenby, nato dalla storia con la modella australiana Beau Lazenby.
Come da molto tempo ormai, Cave è elegantemente vestito, indossa un impeccabile completo grigio a sottili righe verticali, porta una cravatta blu e un paio di mocassini neri. Ilnuovo disco, al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, «è pieno di gioia» spiega.
“Wild God” ha qualcosa di selvaggio, lo dice anche il titolo: è un disco spiazzante, diverso da tutte le cose che avete fatto in passato.
«Oh, sì, davvero? Sono felice che tu abbia questa impressione: è stato mixato da Dave Fridmann. Io e Warren abbiamo portato il disco a Buffalo, e lui è riuscito a ottenere un suono puramente emotivo».
Negli ultimi lavori tu e Warren lavoravate insieme nella prima fase. Anche stavolta è andata così?
«No, avevo scritto molte cose e solo dopo ho chiamato Warren per andare in studio e provare a comporre un po’ di musica. Ma non ero per niente soddisfatto del suono: era troppo simile a quello che facevamo prima, più energia alla musica e finalmente è venuto fuori qualcosa di completamente diverso, credo…».
Il primo pezzo che hai scritto per questo album è stato “Frogs” (Rane): di cosa parla?
«Una coppia, potremmo essere io e mia moglie Susie, cammina nella pioggia una domenica mattina. Si sente il suono di campane nell’aria e quindi può essere che stiano tornando a casa dopo essere andati a messa. Potrebbero aver ascoltato una lettura della Bibbia, probabilmente quella di Caino e Abele, anche se il loro nome nel pezzo non viene fatto; si dice solo “all’inizio della settimana, si inginocchiò/ e schiacciò la testa di suo fratello con un osso”. Questo brutale omicidio è la prima interazione degli uomini fuori dall’Eden e l’immagine di sofferenza e il senso del concetto di “peccato” che porta con sé stabilisce le basi stesse della Bibbia. E anche della canzone Frogs».
Chi sono le rane?
«Beh, tu, io, noi, l’umanità intera siamo quelle piccole rane. Per un istante saltiamo verso l’infinito, l’amore, la meraviglia, la trascendenza e l’istante dopo siamo di nuovo nel fango. E quando il verso dopo dice che “i bambini in paradiso/ stanno saltando per la gioia” sto parlando delle persone che non sono più con noi e che la morte rende di nuovo bambini. E così ecco che la gioia nasce dai nostri dolori. Ciò che amo delle rane è la capacità di provare gioia. Ok, fammi provare a dirla in un altro modo (chiude gli occhi, mette una mano sulla fronte alla ricerca di una concentrazione sufficiente a spiegare il concetto più doloroso che la mente umana possa immaginare, ndr). Io e Susie, sai, abbiamo attraversato un periodo piuttosto difficile o forse lo stiamo ancora attraversando. E io penso di essere riuscito a trovare un modo per provare gioia».
Come è possibile?
«È come una specie di irruzione nell’aria di qualcosa che può nascere anche da sentimenti di perdita, di lutto. La rana che salta fuori dalla fogna, nella vita. E poi ritorna giù. Ecco, diciamo che questo disco è come una serie di salti di rane, verso la trascendenza».
La canzone finale, “As the Waters Cover the Sea”, sembra invece una sorta di conclusione rispetto a tutti i temi sollevati dal disco. E forse va anche oltre…
«Parla di me e di mia moglie. C’è una citazione di Hannibal Lecter, tratta da Il silenzio degli innocenti. Dice: “Come si comincia a desiderare? Cominciamo a desiderare ciò che vediamo ogni giorno”. Penso che questo sia il mio modo di scrivere canzoni. Sono ispirato e sbalordito dalla semplice vicinanza di mia moglie e da ciò che fa. Questa canzone è letteralmente un momento in cui io sono seduto a scrivere dei testi e lei è seduta dall’altra parte della stanza addormentata sulla sua sedia. Il sole sta entrando dalla finestra e io sto scrivendo. E poi, all’improvviso, tutto cambia e diventa una canzone puramente religiosa. Adesso stiamo parlando della tomba di Cristo e di lui che esce dalla tomba ed entra nel raggio di luce della finestra. In questo momento avviene una conversione. Poi Susie si sveglia, si gira verso di me e dice: “Andrà tutto bene nel mondo”».
Fa pensare al tuo album “Ghosteen”, quando arriva la telefonata che annuncia la morte di vostro figlio Arthur. Forse questa nuova visione è una sorta di redenzione.
«Quel momento di cui parli, nella mia mente è l’ultimo della vita precedente con mia moglie. Il telefono suona e… tutto cambia. Scopriamo che nostro figlio è morto. Ho un ricordo indelebile di Susie seduta al tavolo della cucina ad ascoltare la radio. Sì, hai ragione. Questa è una cosa davvero molto simile. Non ci avevo pensato…».
Un altro pezzo si intitola proprio “Conversion”. Hai davvero pensato a una conversione? Di che tipo?
«Queste sono questioni molto sottili, astratte e delicate. Non parlo di conversione in senso cattolico. La conversione per me è passare da un certo stato dell’essere a un altro. E penso che questo sia ciò che accade nella maggior parte delle canzoni di Wild God. Sono di natura trascendente, cioè partono da un luogo ordinario e si trasferiscono in un posto straordinario».
Non ti interessano altri tipi di esperienze religiose?
«Mmm… No! Mi sento molto a mio agio con la mia religione. Cioè, in realtà non voglio dire che mi sento a mio agio: ho molti, molti dubbi e incertezze. Ma penso che nella religione cristiana ci siano elementi di straordinaria bellezza. Così mi ritrovo a tornare in quel luogo ancora e ancora. Trovo che la struttura del servizio cristiano, anche se non mi definisco cristiano, sia straordinariamente commovente. E non trovo molti posti nel mondo secolare che offrano qualcosa del genere. Forse la musica: puoi andare a un concerto e uscire da lì come una persona diversa, convertita forse. Per questo penso che la musica sia importante».
Tornando alla conversione: Les Murray, il massimo poeta australiano, dice che tutta la sua opera è dedicata “Alla gloria di Dio”. E la tua?
«Anch’io penso che in qualche modo tutta la mia musica dall’inizio a oggi sia stata realizzata per la gloria di Dio. Forse lo è un po’ di più quella di questi giorni ma sì, credo che si possa davvero dire così».
Allo stesso tempo, da un po’ ti sei messo a fare piccole statue sul diavolo per un’opera che hai chiamato “The Devil — A life collection”. Che cosa significa?
«Rappresentano il diavolo come una persona ordinaria che attraversa le sue tribolazioni, nello stile, credo, delle stazioni cattoliche della Via Crucis. È una piccola storia di peccato, redenzione e assoluzione».
Di sicuro c’è qualcosa di religioso anche nei tuoi libri: in “E l’asina vide l’angelo”, ambientato in una comunità di fanatici che venera un Dio crudele, ma anche ne “La morte di Bunny Munro” nel rapporto tra padre e figlio.
«Bunny Munro attraversa la sua vita, straordinariamente compromessa e incasinata, a spese di quel bambino. Ma esiste questo strano amore tra loro che incredibilmente continua sempre, attraverso tutto il libro, senza essere distrutto dalle sconsiderate azioni del padre».
Questa gratuità dell’amore di un figlio verso un padre devastato e folle è, per me, il “sacro”. Un amore commovente, addirittura straziante in certi momenti.
«Sì, è proprio così. E sicuramente nel personaggio di Bunny Munro c’è qualcosa che fa riferimento a me (improvvisamente Nick si ferma, c’è un lungo silenzio, ndr). Io, sai, ho avuto un sacco di problemi nella mia vita, ma ho sempre cercato di riuscire a tenere mio figlio di buon animo. Ho sempre cercato di dire cose tipo: “Non preoccuparti, va tutto bene”. “Ehi, facciamo questo! Facciamo quest’altro!”. Anche quando intorno a me tutto stava cadendo a pezzi. Conosco molto bene quella sensazione che traspare nel libro. Quindi, da questo punto di vista, la storia è piuttosto biografica».
Allo stesso tempo, c’è qualcosa di veramente atavico nel raccontare la sessualità maschile. È vero che ti sei ispirato a Valerie Solanas nel farlo?
«Sì, adoro tutta quella vecchia scuola femminista: Germaine Greer, Andrea Dawkins, Camille Paglia. E adoro il suo libro S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione dei maschi. È un orribile esempio di agitazione culturale. Lei è famosa per essere la donna che ha sparato ad Andy Warhol nel 1968 e poco dopo uscì il suo Manifesto, creando enorme sensazione. Norman Mailer la definì “la Robespierre del femminismo”. Nel modo in cui descrive il maschio è davvero brillante (ride, ndr): una sorta di stupide creature simili a scimmie. Bunny Munro è esattamente questo! Quindi sì, assolutamente, è stata di grande ispirazione per quel libro. Tra poco faranno una serie tratta da Bunny Munro e mi sembra che sia buona. Non ho scritto io la sceneggiatura però».
Alcuni hanno detto che era un testo misogino.
«Strano. Pensavo che fosse piaciuto a tutti (ride, ndr)».
Kylie Minogue e Avril Lavigne sono state contente della dedica alla fine del libro? (recita: “Ringrazio Kylie e Avril con affetto, rispetto e le mie più sincere scuse” e fa riferimento alle fantasie erotiche di Bunny Munro sulla presunta bellezza delle loro parti intime, ndr).
«Non so se Kylie abbia mai letto quel libro».
Non gliel’hai mai chiesto? (Hanno interpretato insieme il brano “Where the Wild Roses Grow”, ndr).
«Oh, sì! Continua a dire che il libro è accanto al suo letto e che un giorno lo leggerà ma non sono sicuro che l’abbia fatto. Comunque non importa, siamo ottimi amici».
Ritornando a “Wild God”: dici che questo disco è pieno di gioia. Da dove viene?
«Wow, beh, viene dal mondo».
Davvero? Dal mondo? Oggi?
«Una delle cose che ho imparato dal mio essere devastato dal dolore e dal mio tentativo di cercare di ricostruirmi è che il mondo non è malvagio. È sistemicamente bello e ha un’inclinazione verso la bontà. Così quello che cerco di fare è presentare questa idea del mondo in tutti i modi possibili. Cerco di farlo con “The Red Hand Files” (le lettere a cui Cave risponde online direttamente in maniera esaustiva, schietta e senza alcuna retorica, ndr) e attraverso i dischi e i concerti. Non vuol dire che dobbiamo essere felici: si tratta solo di capire il valore di cosa significhi essere vivi. E questo sentimento deriva da una profonda comprensione dell’acuta vulnerabilità del mondo e degli esseri umani, dalla natura precaria delle nostre vite. Se riesci a comprendere questo, allora capisci quanto siamo preziosi».
E allora chi è invece questo “Dio selvaggio” del brano che dà il titolo all’album?
«Il “Dio selvaggio” è una sorta di riflessione mistica sui nostri bisogni di esseri pieni di speranza e di amore. Quello che intendo con “amore” è che tutti abbiamo bisogno di qualcuno che creda in noi. Dovremmo chiedere al mondo di poterci sedere davanti a qualcuno che ci spieghi che siamo importanti. Che ci faccia capire il nostro valore. Ha senso per te quello che dico?».
Moltissimo: credo anch’io che stia scomparendo la capacità di empatia, di parlare, di conoscersi.
«Il messaggio prevalente che riceviamo oggi dai media è che non abbiamo valore, che siamo corrotti. Che le nostre azioni dovrebbero essere guardate con sospetto. Che… “merda, il mondo è fottuto!”. Che come esseri umani non possiamo fare nulla di buono. Questo è il messaggio “felice” che leggo sui giornali praticamente ogni giorno».
Dio, la religione, la messa, le conversioni. Qualche tempo fa il “Guardian” aveva fatto una lunga speculazione sul fatto che Nick Cave stesse diventando un conservatore: è davvero così?
«Non sono politicamente conservatore. Non lo sono davvero. Ma sono conservatore per le piccole cose e non ho paura a dirlo. Beh, ho paura di come si sta trasformando il mondo. Il mondo è un disastro. Va bene. Non contraddice quello che dicevo prima. La mia interpretazione del significato effettivo di “conservatore” è qualcuno che capisce la natura della perdita perché sa che è molto facile perdere qualcosa ed è molto difficile creare o riportare indietro quella cosa. Quindi penso che un conservatore sia naturalmente cauto nei confronti del progresso. Io credo che dobbiamo muoverci verso un mondo migliore ma farlo in un modo ordinato e umano».
L’idea di un “Dio selvaggio” potrebbe anche far pensare al “demiurgo cattivo” dello gnosticismo: c’è qualche riferimento?
«No. Non è un Dio malvagio quello di cui parla Wild God. Io penso che sia… un Dio sofferente. Personalmente sono convinto che Dio soffra. Non credo che sia onnisciente, qualcuno o qualcosa che vive fuori dal mondo e che ogni tanto rivolge lo sguardo a questi poveri burattini che si affannano nel condurre le loro disastrate vite. Questa non è la mia concezione di Dio. Dio per me è una forza profondamente connessa al mondo. Che soffre con noi».
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