Maurizio Maggiani
Fatevene una ragione amici e cugini, ziette mie care, conoscenti alla vicina e conoscenti alla lontana che mi avete lasciato questi centoventuno messaggini woazzappini per chiedere come state, state bene? Fatevene una ragione se ancora non ho risposto alle vostre attenzioni, alle vostre preoccupate gentilezze, alla vostra buona volontà, posso dare una mano? Fatevene una ragione se ancora non ho voglia di rispondere, non ne ho neanche il tempo, ma per la verità anche se lo avessi non ne avrei la voglia. Fatevene una ragione, perché no, non sto bene, non stiamo bene. Oddio, noi qui a Borgo Tulipano, lo sapete, siamo a quota centodieci e i fiumi sono laggiù, dunque tutto bene perché la casa è asciutta, hanno svegliato i laghetti a monte, ma i fossi sono stati puliti con cura, i contadini hanno lavorato bene questa estate, e l’acqua ha fatto la sua strada, furente sì, ma tenuta al guinzaglio. Pensateci un po’, bella questa espressione romagnola, svegliare per tracimare, debordare, inondare, dare di fuori; svegliare è del resto più che appropriato, abbiamo appena passato due notti senza chiudere occhio, vorremmo dormire e non ci riusciamo ancora, stiamo male anche per questo.
Cos’è che ci tiene svegli in una casa asciutta, servita di elettricità e ben fornita di acqua e di cibo? Ci siamo ammalati di una malattia che non sapevamo, una malattia di altri mondi, di altre genti, di altre epoche. La malattia dei reduci. Siamo stati i superstiti delle due alluvioni dell’anno passato e siamo rimasti dei reduci. I fortunati che si sono salvati, che hanno perso poco e niente, ma sono rimasti in qualche parte dentro di loro ancora là, ancora alla catastrofe, ancora con quelli che hanno perso tutto o quasi tutto, ancora con quelli che non hanno ancora avuto niente o quasi niente. E si sentono in colpa se solo gli capita di scordarsene per un po’, di liberarsi dal peso di un sempiterno presente di ciò che è stato.
Nell’anno e qualche mese che è trascorso dal maggio del ’23 si è formata una singolare federazione affettiva, le comunità reduci dell’alluvione romagnola; che è qualcosa di più della solidarietà, è compagnia, quelli che condividono il pane. I paesi, i borghi, le vallate, le piane, i fiumi, i rii, non sono più posti che conosciamo, sono diventati posti a cui vogliamo bene e bene ci vogliono. Piuttosto che andare in gita, abbiamo preso a frequentarli, a conoscere meglio la gente che ci vive, a parlarci tra noi, a comprare nei negozi che ce l’hanno fatta a riaprire, abbiamo partecipato alle cento sagre e iniziative per ridare vita a tutto ciò che stava per morire. Se avevamo voglia di passeggiare, allora ce ne siamo andati a camminare attorno alle mille frane ancora vive su in collina, su in montagna, a constatare, a controllare, a presupporre, a fantasticare su come poterci mettere mano, con la gente di lì, con la gente che non ci ha mai pensato un secondo ad andarsene, “ci andiamo su dietro” e sono ancora lì. Per questo non siamo riusciti a dormire, la prima notte ad ascoltare la pioggia, a interrogarla, a decifrarla, la seconda attaccati ai telefoni per sapere, il Senio è svegliato a Castello, il Montone tiene, un metro a Marzeno, a Sarna il Lamone ha svegliato ma in città gli argini tengono. E poi, nel più fondo della notte, Marzeno è persa, Modigliana si sta disfacendo, stiamo perdendo Tredozio, e Casola, e Riolo. E all’alba la piena scende alle terre basse, Lugo e Bagnacavallo non ce la fanno, e nemmeno Cottignola, hanno detto che a Traversara ci sono due dispersi. Ecco perché stiamo male, anche se la casa è asciutta, anche se abbiamo preso per tempo il vecchio Silvano dalla sua casa a quota uno e l’abbiamo qui con noi, ed è qui che scalpita che vuole andare a controllare i suoi campi, e ci andrà, appena suo nipote addetto alla disciplina familiare girerà l’occhio, perché ha novantadue anni e lui non può non prendersi cura dopo che la vita si è presa cura di lui sotto i bombardamenti del ’44. Ecco perché stiamo male anche se Faenza è salva, è salva anche se è piovuto di più e in meno tempo dell’anno scorso eppure dove l’acqua era salita a tre metri questa volta non è arrivata a uno, lo è salva perché con il poco che è stato dato si sono fatte delle opere e le opere sono state fatte bene. Ecco perché stiamo male, perché se Faenza è salva non lo sono tutti i faentini; tra loro c’è chi aveva perso tutto e con fatica è riuscito a ricostruire qualcosa che ha di nuovo perso, e tra loro chi solo due giorni fa piangeva di gioia per aver ricevuto finalmente un rimborso che se ne è andato in fumo. Pochi quelli, perché i più non hanno ricevuto niente o, peggio, l’insulto di una elemosina, visto che gli addetti di Stato alle verifiche delle domande sono stati evidentemente addestrati al sadico esercizio della cavillatura, cavilli che sarebbero di ridicola insensatezza se non fossero inferti alla stessa sopravvivenza degli scampati, e allora questo assume un suo ignobile senso. Ecco perché stiamo male, perché le opere per dare un po’ di sicurezza alle terre d’Appennino e alle Terre Basse sono opere che richiederanno anni e decenni, e risorse e volontà indicibili alle orecchie dell’attuale governo e assai probabilmente del prossimo venturo e di quello dopo ancora.
Sto male perché questa mattina, nel mezzo degli orrori consueti, i giornali mi hanno edotto di una nuova macabra notizia, la Confindustria e il governo hanno stretto un patto d’acciaio per fare del Green Deal, l’unica flebile speranza di salvare quel poco che è ancora salvabile per sopravvivere al disfacimento dell’ambiente dove intendiamo vivere, di fare dell’unica buona intenzione della UE carta da culo. E sto male perché la prima cosa che è venuta in mente agli augusti esponenti di questa politica è di mentire sapendo bene di mentire sugli aiuti della passata alluvione, e dunque pronti a mentire su quelli della nuova. E per dirla tutta sto anche un po’ male perché, come dicevo, ora l’affidabile altimetro in mio possesso dice che casa nostra è a quota centodieci, ma l’anno scorso la dava a quota centododici, che è successo di quei due metri? Forse che Borgo tulipano sta scivolando verso il fiume, forse che neppure qui potremo dirci salvi?