di Nadeesha Uyangoda
In Niente dura davvero a lungo un certo punto l’autore Matthieu Seel scrive «dissocio, in modo quasi istintivo. Ho enormi difficoltà mentali a raccontare i fatti in prima persona » . Nonostante questo romanzo biografico sia effettivamente scritto in prima persona, nella lettura questa tendenza a dissociare appare ben palpabile: l’autore narra i fatti che gli sono capitati in maniera distaccata, scientifica, quasi fosse la fredda cronaca di un’altra esistenza – e quell’io del memoir si trasforma molto facilmente in una terza persona, come se quella vita fosse accaduta a un perfetto sconosciuto. È, senza voler fare psicologia spiccia, il modo di sopravvivere a un trauma, immaginare cioè che tutto quel dolore sia capitato a qualcun altro, e noi ne siamo solo i fedeli testimoni.
Poco oltre la metà del libro, i due – il protagonista e il testimone – si incontrano, quando gli ospedali non lo ammettono per curare la propria dipendenza: «Allora vado in cerca d’aiuto dal nostro medico di famiglia » , racconta, « e finalmente mi prendono. Ospedalizzato per richiesta di un terzo. Questo terzo, sono io».
L’io che Seel riconosce è già molteplice: il bambino nato da padre ignoto e madre ignota, Jean Yvan, dichiarato quindi figlio della nazione, diventato poi Matthieu, il secondogenito adottivo di una coppia borghese e bianca del XIX Arrondissement, che si trasforma infine in Charles sulla Collina, un posto tra Saint- Denis e Parigi, «fuori le mura, fuori campo, fuori tempo, fuori circuito, fuori settore, fuori norma».
Quella prima persona entra ed esce dai centri di disintossicazione, si aggira intorno ai reparti di psichiatria, resta appena sulla soglia delle carceri, cade dentro la dipendenza di nuovo e di nuovo si tira fuori dalla vita di strada. Dal baratro in cui lo getta fumare il crack, disseziona sé stesso in una lunga serie di frasi: “io” è un personaggio che vive recluso dietro alle tende; è un personaggio la cui migliore amica è una televisione; rifiuta di vivere la quotidianità; fugge il mondo; sanguina e brucia; qualcuno che ancora non ho trovato il suo posto nel mondo. È da questa frammentazione, da questo guardarsi allo specchio da molto vicino, che finisce lo smarrimento di Jean Yvan, di Mathieu, di Charles, e inizia la ricostruzione di un sé e di un’identità.
Il racconto di Seel sembra durare poco più di una notte e ci trascina, gradino dopo gradino, nel totale asservimento alla droga, dentro i meandri di un ambiente violento, tra vicoli e parcheggi dove la sopravvivenza è l’unica religione. Se però la discesa è lastricata da un linguaggio diretto, da un ritmo via via totalizzante, la risalita non è altrettanto efficace, con una scrittura che si fa sfuggente in una conclusione che appare affrettata.
La spirale in cui il protagonista finisce scopre un campionario umano che si muove ai margini, per lo più fatto di persone ignorate dal sistema o senza documenti, che attirano l’attenzione delle istituzioni quando turbano il decoro, e questo li spinge ancora di più a isolarsi, senza una casa, senza accesso a cure. La società li squadra dai finestrini solo per distogliere lo sguardo, e forse quella è la violenza più straziante. Basti pensare che, con le Olimpiadialle porte, le autorità francesi hanno sfrattato persone migranti e senza fissa dimora dalle strade di Parigi, ricollocandole altrove, senza un adeguato sostegno, così da poter meglio preparare la città all’arrivo di turisti e atleti.
Niente dura davvero a lungo,
esordio dell’autore francese e pubblicato in Italia da Fandango nella traduzione di Manuela Maddamma, è un memoir che se offre qualche risposta lo fa col contagocce. Matthieu si racconta come un bambino che, non riconoscendosi nella famiglia – e nel patrimonio genetico – che ha attorno, costruisce i propri rapporti umani imitando gli altri. Quando il mimetismo infantile lascia il posto alle decisioni autonome, smette di cercare legami di affetto e l’oggetto della sua dipendenza diventa qualcosa che può colmare il dolore per quell’assenza. Ha dieci anni appena quando inizia a fumare qualsiasi cosa gli capiti a tiro: hashish, cocaina, crack.
Il racconto della dipendenza, che quasi inevitabilmente converge con la vita di senzatetto, è tagliente, costruito su frasi brevi e sintetiche.
In questo vortice scompaiono le risposte, non si ricordano più nemmeno le domande, Parigi sbiadisce nelle banlieue, la famiglia un fantasma tra le pagine – l’unica cosa che gli diventa indispensabile sono quei sassolini e il modo di procurarseli, un palliativo per non sentire più il mondo, per anestetizzarsi a sé stesso.