Aprire le porte ai migranti è questione politica, economica, umanitaria Il giornalista e lo storico ragionano in un saggio che arriva in libreria
Testo diLucio Caracciolo
Nella declinazione corrente in Italia, ma in genere in tutti i paesi europei e occidentali, “accogliere” è oggi verbo divisivo. Nella polemica “politica” riguardo alla coesione culturale e sociale della nostra comunità minacciata dallo straniero che varca la frontiera, questo termine è contestato. Intorno all’accoglienza o al respingimento si determinano schieramenti ideologici, quasi guerre di religione. La nazione “invasa” deve decidere se e chi accogliere, ovvero ammettere nel suo seno. Ammettere persone, con tutta la loro umanità, come ricordava lo scrittore svizzero Max Frisch descrivendo la reazione media nel suo paese all’arrivo dei Gastarbeiter italiani o variamente mediterranei: «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini».
Fino a che punto siamo disposti ad accogliere uomini e donne d’un altro mondo? Diffuso il punto di vista di chi è più refrattario all’accoglienza, perché crede che l’accoglienza di allogeni – persone che non appartengono all’ambiente normalmente frequentato – metta in crisi il senso stesso della nazione in cui vive. Divide la comunità, vi scoperchia faglie, abissi di diffidenza. C’è addirittura chi sostiene che accogliere avvantaggi in prospettiva chi viene da fuori rispetto all’autoctono. E con ciò infici quel grado di presunta o effettiva pacifica convivenza che contribuisce a certificare l’identità della propria comunità.
Questa visione è diffusa, io credo, in molti paesi europei e non solo. Certamente anche nella potenza numero uno, gli Stati Uniti d’America, come testimonia la contrapposizione politica e culturale intorno al muro del Rio Grande al confine col Messico – non ancora completato – tema sul quale si sono giocate in parte rilevante le ultime due campagne presidenziali. E dove un libro pubblicato nel 2004 dal famoso politologo Samuel Huntington, che si intitolaWho are we? (Chi siamo?) implicava già la questione che stiamo dibattendo. Perché se l’accoglienza è messa in crisi dal “chi siamo?”, è chiaro che si tratta di una questione esistenziale e politica prioritaria, intorno alla quale cade o si (ri)forma una comunità, uno Stato.
Poi c’è il punto di vista utilitaristico, visibile anche nel nostro paese, dove il calcolo sull’accogliere o meno può essere legittimato da necessità demografiche o economiche presentate come asettiche, scientifiche. Questo è un aspetto paradossale. Noi siamo un paese che continua a perdere abitanti a rotta di collo da almeno cinque anni. La nostra età mediana è di 45 anni, destinata a crescere insieme alla discesa della curva demografica. Eppure mentre del “pericolo migratorio” si discute animatamente, questo tema è fuori del dibattito pubblico, non sembra preoccupare la nostra società. Ma se un paese che non fa figli vuole sopravvivere, ringiovanirsi e quindi crescere, i figli deve importarli fatti.
Attraverso un sistema legale, basato su quote di ingressi annuali dai diversi paesi. Importare figli di madri non italiane implica accettarne certi caratteri originari che non puoi cambiare, ammesso sia desiderabile. Puoi al meglio integrare quei giovani immigrati, non assimilarli. Processo quest’ultimo, se mai giusto e possibile, che non può compiersi in meno di due o tre generazioni.
Testo diAndrea Riccardi
L’Italia non ha mai avuto un problema di accoglienza verso gli altri nella sua storia unitaria, se non dei settentrionali verso i meridionali, insomma degli italiani verso gli italiani. L’Italia, quella ad esempio che io ricordo da bambino, era tutta bianca e tutta cattolica. Quando ero a spasso con mia nonna per Roma, la città allora sicuramente più cosmopolita d’Italia, lei mi indicava i seminaristi africani del collegio di Propaganda Fide con la loro tipica divisa, e mi diceva: «Guarda i negretti!». Ricordo quando per laprima volta — ero in Germania con mio padre — nel 1961, a Baden-Baden, vidi da vicino un africano con alcuni segni tradizionali sul viso. Avevo visto persone così solo al cinema o nelle riproduzioni. In particolare in un film sul Kenya, che mi aveva colpito molto: c’erano dei combattenti Mau Mau che aggredivano deifarmer inglesi, una bionda famiglia che coltivava le terre della sua fattoria. Era un film molto colonialista.
L’esperienza dell’altro non fa parte della mia giovinezza, a differenza di quello che poteva essere per i giovani francesi o inglesi della mia età. Negli anni Sessanta-Settanta, agli inizi della Comunità di Sant’Egidio, gli immigrati, le persone da accogliere, erano i napoletani, i siciliani, i calabresi, che venivano a Roma per lavorare. Nell’Italia del secondo dopoguerra, il problema dell’accoglienza era quello dei meridionali nel Centro o nel Nord del paese. Quando ero bambino la mia famiglia si stabilì a Rimini e lasciò Roma; il mio problema allora era di essere accolto, perché parlavo italiano con un accento diverso e non conoscevo il dialetto romagnolo. Allora il meridionale talvolta era chiamato sprezzantemente marucchén , marocchino. Anche da un punto di vista religioso, l’Italia era compattamente cattolica. Certo, c’erano le minoranze ebraica e protestante, ma la maggioranza era cattolica (con un ridotto numero di non credenti dichiarati). Una situazione assai diversa dalla Francia e dal Regno Unito! La grande moschea di Parigi è stata inaugurata nel 1926 dal presidente della Repubblica francese, come gesto di riconoscenza verso tutti i musulmani morti per la Francia nella Prima guerramondiale. Attraverso un monumento, peraltro molto bello nel suo stile “moresco”, Parigi faceva spazio a quello che le autorità francesi chiamavano il “culto musulmano” proprio nel quartiere latino, non lontano dall’università della Sorbona e dal Pantheon, che accoglie la sepoltura di figure significative della storia francese.(…) L’Italia è un paese in ritardo, rispetto alla Francia, sul tema del confronto con gli altri? Basta guardare la data di inaugurazione della moschea nelle due capitali: Parigi, 1926, Roma, 1995. I francesi hanno elaborato una cultura dell’accoglienza in nome della laïcité républicaine , che è poi l’idea dell’assimilazione ai valori francesi, considerando la religione solamente un culto.Ma poi la Francia ha dovuto rivedere questa sua visione, avvicinandosi a un modello che impropriamente si potrebbe definire concordatario, di fronte alle tendenze separatiste del mondo islamico nel paese. Gli inglesi, da parte loro, hanno seguito esattamente la via opposta, secondo la cultura di governo del loro impero: ogni comunità si autogoverna nel quadro politico-istituzionale britannico. L’Italia non ha avuto un suo modello di integrazione, non ha elaborato un suo pensiero, affrontando solo pragmaticamente la presenza dei non italiani sul suo suolo.