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6 Ottobre 2022INTERVISTA A LARRY WATSON
Uno degli scrittori della nuova frontiera ci racconta perché, dalla tv ai romanzi, il genere simbolo dell’America vive un boom: “È un’invenzione ma ci affascina. Come tutti i miti”
«Imiti difficilmente muoiono, specie quelli che rappresentano i desideri e le paure della gente. Il Far West americano dipinto nella cultura popolare in realtà non è mai esistito. Ma si è piantato profondamente nei cuori e nelle menti di tutto il Pianeta». Larry Watson è un “professore di western”. Figlio di immigrati svedesi, nato in North Dakota, ha insegnato per 25 anni nell’Università del Wisconsin, dove oggi vive, a Kenosha, con la moglie Susan. Famoso per Montana 1948 e perUno di noi ,da cui è stato tratto un film con Kevin Costner e Diane Lane, è considerato il numero uno del nuovo genere di frontiera, come conferma il suoAddio e ancora addio (Mattioli 1885).
Mr Watson, lei si sente un innovatore dell’eterno western?
«Il western è un’invenzione americana, i cui contorni e paesaggi ci sono familiari quanto i campi e gli stadi dove seguiamo i nostri sport preferiti. Grazie a questa familiarità noi autori possiamo attingere a molte storie, liberandoci dalla necessità di spiegare, permettendoci di concentrarci sulle scene e sull’azione».
Dai tradizionalisti come MacMurty, Oakley Hall, Guthrie, fino agli autori influenzati dal genere come McCarty, Lansdale, Vlautin, c’è qualcosa che vi accomuna?
«Proporrei, anche se con una certa cautela, un elemento comune: storie con trame, personaggi e ambientazioni identificabili. Non trovano il favore dell’accademia o dei letterati, ma sono popolari. Del resto, la distinzione tra opere letterarie e di genere diventa sempre più sfocata, con il passare del tempo».
Nei suoi libri il rapporto tra uomo e natura è dominante. Gli scenari climatici estremi sottopongono gli uomini a sfide incessanti.
«Viviamo in luoghi con fenomeni atmosferici pericolosi, dai tornado alle alluvioni, che mettono a rischio la sopravvivenza. Un modo di vivere in cui spesso non si ha accesso a merci e servizi essenziali, e che costringe le persone a essere autosufficienti – cosa di cui gli americani sono orgogliosi. Ma l’isolamento può portare a diventare spaventati, diffidenti e risentiti verso gli altri: i popoli nativi, i politici lontani, i turisti facoltosi che vengono in queste zone. Ma fare fronte comune con i vicini aiuterebbe. A ogni tempesta o incendio dobbiamo cavarcela da soli o abbiamo bisogno degli altri? Questo è il conflitto a cui l’America non ha saputo dare risposte soddisfacenti».
C’è nel suo ultimo romanzo una immagine forte: la roulotte del vecchio cowboy Calvin Sidey ospita libri in latino di Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Plinio e, accanto, un winchester e un fucile a pompa. È una sintesi dell’America profonda?
«Sono elementi che appartengono alla dicotomia tipica dell’ American life .
Calvin Sidey, vivendo da solo, può aver bisogno (o credere di aver bisogno) di un’arma, per trovare cibo o per protezione. Ma, per contrasto, è la letteratura – quella classica, che richiede un’istruzione – a rendere la sua vita degna di essere vissuta.
L’uomo dunque è più del fucile e della pistola che ha appesi alla parete: i testi antichi indicano che in realtà appartiene a un’altra epoca. Il western americano è pieno di solitari, e le lorostorie sono spesso tragiche».
Ritiene che cinema e serie tv abbiano contribuito al rinnovamento del western?
«I produttori di western capirono istintivamente che personaggi, intrecci, ambientazioni e temi corrispondevano a desideri e paure profonde. Erano impegnati nella costruzione di un mito. Gli eroi e i cattivi potevano non essere storicamente accurati ma toccavano corde ancestrali. Una volta che il genere si consolidò, una nuova ondata di artisti ha proposto qualcosa di diverso, rompendo quel mito. Ma anche quando personaggi e storie tradizionali vennero smascherati come falsi, il desiderio di crederci persisteva.
Mio nonno ha lavorato come cowboy in Montana e North Dakota, ma avrebbe riso se gli avessero detto “sei un personaggio iconico”. Era solo orgoglioso di aver messo su casa, avviato una fattoria e cresciuto una famiglia».
Si potrebbe dire di lei quello che Henry James disse del romanziere inglese Anthony Trollope: era un maestro dell’ordinario, della vita quotidiana. Lei dalla storia di una famiglia trae un’epopea.
«Le persone comuni sono il mio soggetto. Tento di essere autentico nel raccontarle, senza né abbellirle né renderle volgari. Ogni narrazione che voglia mostrare la condizione umana deve essere ancorata all’ordinario».
Ha detto di voler raccontare i nativi americani in modo realistico,senza condiscendenze.
«Ogni descrizione della vita del West americano deve avere dei nativi. Sono una presenza significativa. Ma devono essere descritti non come caratteri generali a cui affidare un messaggio, bensì come esseri umani. In questo senso, gli artisti nativi hanno dato un contributo importante non solo alle arti ma all’insieme della vita americana».
In una pagina, con un paio di tocchi, racconta la nascita della nazione: la confluenza di due fiumi, l’arrivo della ferrovia, chilometri di praterie, la costruzione di una città. La velocità è stata essenziale nella crescita dell’America?
«Non avevo considerato questo aspetto prima d’ora, ma sì, la velocità è stata fondamentale. Nella regione in cui vivo la terra è stata occupata rapidamente.
Questa fame di costruire dal nulla posti nuovi è il microcosmo che spiega tutta la grande e complessa storia americana».