Con Oliviero Toscani ci lascia un ineguagliabile, generoso osservatore del mondo. Per lui la fotografia non fu mai un mestiere, ma un modo di essere. Un balcone affacciato sulla società, sugli umani e i loro (i nostri) vizi e virtù. Uno strumento diagnostico ma anche chirurgico, come uno stetoscopio o un bisturi col quale incidere profondamente nel corpo sociale senza fermarsi davanti a niente pur di additare il morbo, dargli un nome, provare a correggerlo con mano fermissima. Oliviero entrava col suo sguardo implacabile nelle pieghe dei nostri linguaggi, nei modi di dire e di pensare, sfidandoci a rincorrerlo sulla lama di coltello dell’ironia, del gioco, del paradosso. La fotografia non come astratta “opera d’arte”, ma come ingiunzione a pensare.
Pochi conoscevano quanto lui gli artifizi tecnici e le liturgie stilistiche della fotografia del nostro tempo, ma su questi aspetti Oliviero non indugiava: per lui impugnare l’obiettivo era un dato di natura, come respirare o camminare. Perciò poteva brandirlo, renderlo acuminato come una spada o sottile come lama di pura luce. Non fu mai un pensatore sistematico, un costruttore di progetti politici definiti: ma una sensibilità sempre fresca, quasi adolescenziale, innescava in lui reazioni d’istinto, spesso divertite, talvolta consapevolmente eccessive. Quasi temesse di non farsi intendere, volava sopra le righe, proponeva slogan, dichiarazioni, campagne fotografiche che furono spesso etichettate come ciniche provocazioni, ed erano invece grida d’indignazione o di dolore, amplificate per raggiungere quante più orecchie possibile. Se nel suo lavoro di fotografo vi fu una maniera, fu la ricerca di un equilibrio forse impossibile fra la tentazione di urlare al mondo lo sdegno di fronte, che so, alla pena di morte, e un’espressione figurale misurata e severa, a costo di scontentare sia i difensori dell’ordine costituito che gli attivisti più sfegatati.
Oliviero Toscani fu talvolta accusato di “reati di opinione”, e sempre (credo) assolto in ultima istanza: ma per naturale impulso non sapeva trattenersi quando sentiva odore di sepolcri imbiancati, di perbenismo ipocrita; e se fiutava esagerazione nei peccati altrui rispondeva moltiplicando la propria collera, voleva condividerla con gli altri. Lo faceva anche nei dibattiti radiofonici e nei rari tentativi di diretto impegno politico, ma solo nella fotografia sapeva di trovare i linguaggi appropriati. Quando mise sui muri una modella anoressica in dimensioni maggiori del vero, parve ad alcuni che sfruttasse cinicamente la sofferenza altrui; pochi capirono che lo faceva proprio, quel dolore, e invitava poi tutti a non voltarsi dall’altra parte.
In quel caso, come davanti ai condannati a morte o ai malati di Aids, Oliviero non abusava di situazioni estreme per fini pubblicitari: al contrario, ricorreva al canale pubblicitario, data la sua onnipresenza, per mettere sul palcoscenico del quotidiano tematiche di enorme peso morale e sociale che troppo spesso vengono rimosse dalla coscienza di tutti. L’eccezionale intensità, e vorrei dire la “pulizia” visiva delle sue fotografie gli aveva meritato un ruolo di star mondiale, ma non lo rese mai vanitoso. Al contrario, si mise sempre in gioco (perciò ruppe la collaborazione con un assiduo committente, per esempio per la campagna contro la pena di morte o con una dichiarazione nettissima sul Ponte Morandi), e fece leva sul proprio successo per aver massima libertà di parola (meglio: d’immagine). Sempre impaziente e desideroso di raggiungere, pur con un pubblico bombardato da mille immagini, la coscienza sociale che (lo credette forse ingenuamente) deve pur annidarsi da qualche parte in una società che si dica civile.
Il suo intuito (altri direbbero “ispirazione”) era infallibile perché costruito nel tempo, attraverso l’esperienza e la riflessione. Perciò Oliviero non indossò mai i panni del moralista, e anzi adottò sempre un tono scanzonato e distante, come se davvero tutto fosse per lui un gioco gratuito, il baloccarsi con le immagini di un grande prestigiatore. Al committente assicurava la presenza capillare del suo marchio pubblicitario. Ma a patto che di quella stessa visibilità potessero godere anche temi su cui riflettere: quando due mani, una bianca e una nera ammanettate l’una all’altra, occuparono grandi manifesti nelle strade, nelle stazioni, sui giornali, era fatale interrogarsi (più o meno consciamente) chi fosse il poliziotto e chi il criminale presunto. Un’immagine che era tecnicamente solo il dettaglio di una foto più grande squarciava un velo, apriva un mondo in cui sopravvive la disparità delle “razze” umane. Perciò tra i suoi progetti degli ultimi anni spicca quello etichettato “RAZZA UMANA”, che esplorando in una sequenza di facce le marcate differenze individuali afferma con forza l’unità del genere umano, e non a caso mescola, ad esempio, volti israeliani e palestinesi.
La fotografia fu per lui esercizio di libertà e scuola di eloquenza: perciò qualche volta si spinse a proporre campagne pubblicitarie senza alcuna fotografia. Così fu per una casa di moda che puntava sull’uso intensivo del nero: ed eccolo a proporre un grande manifesto, nerissimo, su cui spiccavano solo due parole, bianche in raffinata maiuscola epigrafica: MORIREMO ELEGANTI. Inutile dire che la proposta fu bocciata.
Ma ora che è venuta anche per Oliviero Toscani l’ora della morte, è se possibile ancor più chiaro, a consuntivo, che quel che a lui importava non fu mai l’eleganza, ma l’efficacia del messaggio; e l’obbligo morale, proprio mentre si trovava a pubblicizzare prodotti di consumo, di consegnare alle immagini la propria riflessione sulla comunità dei viventi.