Gianfranco Capitta, TORINO
Non capita spesso che un’artista «ricordi» una collega scomparsa con tanto impegno, passione e accuratezza da farcela sentire di nuovo viva. Invece può succedere, come ha dimostrato domenica scorsa, nella fantastica cornice paleo-industrial-ferroviaria delle Officine Grandi Riparazioni (per i torinesi familiarmente le Ogr), Cristina Zavalloni insieme a una ricca formazione orchestrale. Potentissima signora – il titolo dello spettacolo – è stato un tributo, ricco e articolato, dentro il Torino Jazz Festival, a una «signora» dello spettacolo italiano, Laura Betti. Le canzoni di cui la grande Laura fu prima destinataria, e poi naturalmente interprete, sono state infatti riproposte, in maniera assolutamente originale ma senza che perdessero alcunché della loro forza, e grazia, e crudeltà e malizia. Un grande concerto, in cui le doti davvero straordinarie di Cristina Zavalloni, capace di passare senza «salti» dalla sua eleganza di soprano alla passione più sperimentale o anche popolare senza mai tradire il gusto, davano spessore e divertimento nuovi alle gloriose «canzoni di Laura». Un esercizio che è stato tentato già qualche volta negli ultimi tempi, ma forse con meno «forza», da parte di altre interpreti. Qui invece è scattato il miracolo, grazie anche all’impianto della formazione musicale (un solido e numeroso organico di solisti di alto livello, integrato dalla folta rappresentanza, generosa e promettente, di giovani del conservatorio torinese), per la quale il direttore, nonché sassofonista, Cristiano Arcelli ha costruito come un tessuto variopinto le molte facce di quel repertorio, nonché della personalità di Laura Betti.
Che nella sua densissima carriera ha dominato la scena tra cinema e teatro, un po’ meno tv (per quanto significativa), ma con inizi musicali di altissimo livello, grazie a nomi molto importanti avuti quali parolieri e compositori. Oltre naturalmente alla passione civile e affettiva verso il suo adorato Pier Paolo Pasolini, a indagare la cui morte «oscura» (da lei resa poi effettivamente molto più chiara) ha dedicato poi in misura totale gli ultimi decenni della propria vita.
MA GLI INIZI artistici di Laura Betti hanno avuto molto a che fare con la musica: scappata dalla tranquillità borghese della natìa Bologna, arrivò a Roma col desiderio forte di recitare, cosa che in effetti riuscì a fare con artisti (di cinema come di teatro) che sarebbero poi risultati maestri nel loro campo. Ma nel frattempo, della sua vocina impertinente fece buon uso, assieme al retaggio originario della golosità e della buona cucina. Cominciò così a frequentare i migliori intellettuali della piazza romana (anche nel senso letterale di quella del Popolo, perché solo più tardi avrebbe spostato il proprio epicentro su Campo dei Fiori), che conquistò in maniera assoluta anche con la sua ottima cucina, e con la spregiudicata simpatia che l’avrebbe poi per sempre celebrata come la più ambita delle tavolate romane. Con Alberto Moravia in testa.
I suoi inizi romani furono però proprio da cantante, anche se non solista. Quando era in vena arrivava a raccontare perfino di una tournée in Australia, dove danzava a faceva coro con altre giovani showgirl al reuccio Claudio Villa. Ma quel coretto danzerino era angariato dai produttori, che individuando in lei la prima protestataria, la protestarono a loro volta, licenziandola e non garantendole più il ritorno a casa. Ma Villa, cuore oltre che ugola d’oro, disse che in quel caso se ne sarebbe andato anche lui. Il finale fu rosa, e la nobiltà del reuccio fu superata solo dalla sua «grandezza» sessuale, oltre che morale. La Betti capì di voler dirigere altrove i propri interessi. E se in tv faceva con Paolo Poli gli intermezzi cantati dello sceneggiato tratto dal romanzo di Hans Fallada E adesso pover’uomo?, riuscì a costruirsi un proprio personalissimo repertorio. E per riuscirci dovette espugnare le resistenze di tutti quei grandi scrittori del momento, che costrinse con grazia a scrivere testi per lei: da Arbasino (che a sua volta l’avrebbe poi citata per tutta la vita), a Mario Soldati, a Giorgio Bassani e Ennio Flaiano, e ancora Fabio Mauri, Camilla Cederna, Paolo Volponi, Goffredo Parise, Ercole Patti. E perfino Pasolini, naturalmente, che per lei scrisse Il valzer della toppa.Non mi piace definire i sessi. Detesto tutto ciò che è definibile, perché c’è sempre qualcuno che ha messo a punto questa definizione per sottomettervi alla sua legge. Laura Betti
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Pasolini, nel «segreto» di una storiaE NON DA MENO furono i musicisti cui lei chiese di mettere quei testi in «canzone»: Piero Umiliani, Piero Piccioni e addirittura Fiorenzo Carpi, che sarebbe di lì a poco diventato autore di tutte le musiche di scena di Giorgio Strehler. Carpi fu l’autore tra l’altro di una canzone bellissima per lei, che aveva anche un paroliere d’eccezione quanto sorprendente: Franco Fortini. La loro Quella cosa in Lombardia è stato poi un successo anche di Enzo Jannacci e di altri chansonnier milanesi, ma rende bene l’idea dello spessore e dell’ambiente «nobilissimi» in cui il repertorio di Laura Betti era nato e crebbe. Ancora prima del successo cinematografico che l’attrice avrebbe raggiunto passando da Fellini (La dolce vita) a Monicelli, Scola, Bellocchio e molti altri, oltre naturalmente a Pasolini col quale avrebbe stabilito un legame tanto profondo quanto duraturo (presente in quasi tutti i film di lui) che non è stato interrotto neanche dall’assassinio del poeta all’Idroscalo di Ostia.
ANZI quel rapporto è diventato il nerbo stesso della vita dell’attrice, l’ha resa di lui avvocato e ambasciatrice nel mondo, grazie al Fondo da lei creato in suo nome, che ha scavato in profondità, in unione stretta con una nuova generazione di intellettuali, per indagarne la morte e garantirgli perenne attualità.
Eppure quelle canzoni di gioventù, nate quasi per gioco, suonano vitali e corpose ancora oggi, il tempo non le sbiadisce. E come si è visto a Torino l’altro giorno grazie allle doti e all’impegno di Cristina Zavalloni, possono avere nuova vita, curiosità ,e un immenso fascino.