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“Sono solo giustificazioni puerili la liberazione decisa dalla premier”
6 Febbraio 2025Lo scenario
di Lorenzo Cremonesi
I quasi 400 chilometri quadrati della Striscia da aranceti a macerie Il ruolo dei Paesi vicini Cisgiordania a rischio
«Una terra senza popolo per un popolo senza terra»: Trump con le sue prese di posizione in favore del trasferimento all’estero dei palestinesi di Gaza torna a dare tragica e controversa enfasi a uno degli slogan più falsi e perniciosi diffuso sin dalle origini del movimento sionista e persino tra i suoi sostenitori nel mondo cristiano. Falso, per il fatto che nelle regioni destinate a fare parte dello Stato israeliano nato nel 1948 e poi dei territori occupati con la guerra del 1967 è sempre esistita una ben radicata popolazione araba. E foriero di tragici sviluppi, dato che, come ripetono i più autorevoli storici, anche israeliani: tranne poche eccezioni alla prova dei fatti minoritarie, nel sottofondo del pensiero e delle azioni dei leader sionisti c’è sempre stata la tendenza a sminuire o addirittura ignorare la presenza araba in quelle stesse regioni che rappresentano il cuore della «rinascita nella terra dei padri».
Lo storico
«Da Theodor Herzl a David Ben Gurion, e poi soprattutto tra i ranghi della destra nazionalista» — sostiene preoccupato lo storico e commentatore Tom Segev — la speranza è stata quella di convincere con le buone o le cattive gli arabi a trasferirsi altrove. Negli ultimi anni il movimento dei coloni ebrei in Cisgiordania è rappresentato dai partiti ultranazionalisti messianici che fanno parte del governo Netanyahu e dichiarano apertamente ciò che prima era solo sussurrato: no alla partizione della terra in cambio della pace e invece sì al trasferimento forzato della popolazione palestinese».
Negli ultimi giorni lo storico conservatore Benny Morris sul quotidiano Haaretz è andato ancora più in là. A suo dire, il progetto del «transfer» all’estero dei palestinesi di Gaza potrebbe presto allargarsi alla Cisgiordania e rivela una «mentalità genocidaria». S’inizia con l’espulsione, ma poi, se ci fossero resistenze, il ricorso alla forza omicida per facilitare la pulizia etnica potrebbe prevalere. «Non dimentichiamo che prima della Soluzione Finale, che proponeva lo sterminio del popolo ebraico, i nazisti avevano progettato di cacciare gli ebrei dal Terzo Reich», scrive Morris.
Non a caso la grande maggioranza dei commentatori internazionali giudica folli e contrarie al diritto internazionale le affermazioni di Trump. Le conseguenze sono destinate a cancellare per sempre gli accordi di Oslo, che nel 1993 miravano al compromesso territoriale in due Stati in cambio della pace. Va detto che non ci sono innocenti.
La violenzaIl terrorismo di Hamas e le stragi dei kamikaze, l’islamizzazione del radicalismo mediorientale, ma anche l’assassinio per mano di un ebreo estremista del premier laburista Ytzhak Rabin e la crescita delle colonie in quelle stesse terre destinate allo Stato palestinese hanno distrutto le premesse del dialogo. Pure, oggi il presidente Usa butta benzina sul fuoco. Trump ridà forza al vecchio slogan del fronte arabo oltranzista, che falsamente presentava Israele come prodotto del «colonialismo imperialista americano». Ne consegue il ricompattarsi del già diviso e litigioso fronte arabo in difesa dei palestinesi. Una causa che gli «accordi di Abramo», le frizioni con l’Iran, gli egoismi economici avevano praticamente cancellato. Adesso Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Paesi del Golfo, Turchia, Iraq rilanciano compatti lo slogan dei due Stati.
Per comprendere il muro di opposizioni alle proposte del presidente Usa è sufficiente ricordare in breve le tappe della storia della «Striscia della disperazione» e il suo rapporto con i Paesi limitrofi. Agli inizi del Novecento è una regione ricca di aranceti, le fonti d’acqua fresca abbondano, i commercianti fanno fortuna con le carovane che da secoli transitano per Il Cairo. Tutto è stravolto con la guerra del 1948 e la nascita di Israele. In pochi mesi la popolazione di Gaza triplica sino a oltre 200.000 abitanti, i campi dei profughi scacciati o fuggiti dalle loro case adesso occupate dalle forze ebraiche crescono tra le piantagioni. L’Egitto include Gaza nell’amministrazione del Sinai. La situazione cambia brevemente con la guerra del 1956, dove Gerusalemme è alleata a Londra e Parigi contro il regime di Nasser per il controllo del Canale di Suez. Ma poi sono gli americani a insistere che Israele si ritiri sulle linee di partenza, abbandonando anche Gaza.
Lo stesso non avviene dopo il conflitto del giugno 1967. Sono stravolte le mappe del Medio Oriente: Israele occupa Sinai, Gaza, Gerusalemme Est, Cisgiordania e Golan. Con gli accordi di Camp David nel 1979, l’Egitto si riprende il Sinai. Ma non pretende più il controllo di Gaza. Le ragioni? Ovvio: per il governo del Cairo la Striscia è solo motivo di grattacapi, ci sono povertà diffusa e radicalizzazione, l’irredentismo dell’Olp serve come slogan contro Israele, meglio non averlo in casa. E intanto cresce il radicalismo islamico. Il 6 ottobre 1981 i Fratelli Musulmani, che sono la «casa madre» dell’Hamas odierna, assassinano il presidente Anwar Sadat, accusato di avere «tradito» la causa palestinese per avere in cambio il Sinai.
Gli islamistiDa allora la sua morte rappresenta un pesante monito anche per l’attuale presidente Abdel Fattah Al-Sisi, che vede in Hamas un pericolo immanente, specie dopo che dal 2007 il movimento islamico è padrone a Gaza. Nel 2013 Al-Sisi ha defenestrato nel sangue il governo islamico del presidente eletto Mohamed Morsi. Non basteranno i dollari promessi da Trump per fargli cambiare idea, come ha già detto apertamente. Lo stesso vale per la Giordania, dove il problema è più acuto. Lo rivela il dato tabù relativo alla percentuale di giordani di origine palestinese. Secondo le cifre Onu, i profughi sono circa 3 milioni su 11 milioni di abitanti, ma nella realtà si parla di circa il 65-70 per cento di giordani di origine palestinese. Nel 1971 Yasser Arafat cercò di defenestrare l’allora re Hussein, che uccise migliaia di combattenti dell’Olp per salvare la monarchia hashemita. Oggi suo figlio, re Abdallah, a sua volta percepisce la proposta di Trump come una minaccia esistenziale e farà di tutto per affossarla.