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6 Aprile 2023Filosofia L’umanità non crede più alla resurrezione dei corpi. E cerca altre strade per lenire il dolore della scomparsa
L’esplosione della scrittura sul web moltiplica le possibilità di portare qualcosa di noi oltre la morte
di Maurizio Ferraris
Se partire è un po’ morire, morire è partire un po’ troppo. Questo spiega la varietà di miti della resurrezione di cui la Pasqua cristiana è una delle versioni che ci sono più familiari, anche se abbiamo perso il contatto con il significato che aveva per i primi credenti. Perché come tutto, nel cristianesimo delle origini, anche la resurrezione di Cristo era l’anticipazione di un evento, la fine dei tempi e la resurrezione dei corpi, atteso come imminente. Che Cristo sia veramente risorto è la prova che anche noi, come Lazzaro, risorgeremo tra non molto. Da secoli non è più così. «Nel Signor chi si confida / Col Signor risorgerà», scriveva ancora Manzoni, ma citava una dottrina più che (immagino) esprimere una certezza o anche solo una speranza. Così, dubito che questa promessa di rinascita, tanto contrastante con il resto delle nostre opinioni intorno al mondo, occupi il centro dei pensieri che oggi si associano alla Pasqua.
Né è accidentale, credo, che il fuoco liturgico venga a concentrarsi sulla processione del Venerdì Santo, che celebra la passione e la morte di Cristo, ossia qualcosa che non è in alcun modo dissonante con la nuda ragione: un uomo si è sacrificato per tutti noi, ed è morto. Quanto al risorgere, è un altro discorso, e per quel che ci riguarda, sebbene in teoria l’idea della resurrezione sia la più grande promessa concepibile per un mortale, in pratica l’umanità contemporanea non ci fa affidamento, e ha spostato, semmai, la propria speranza su vie apparentemente più praticabili, sebbene piene di controindicazioni. Anzitutto, nel prolungamento indefinito della vita, che anche ad un esame superficiale si presenta come un’estensione indefinita della noia in un contesto ecologicamente insostenibile. Miliardi di zombie da nutrire e accudire magari per centinaia di anni, e un innalzamento della vita media dell’umanità rispetto a cui quello che stiamo sperimentando attualmente è una quisquilia.
Dunque, a cosa possiamo aggrapparci per lenire il dolore di una scomparsa totale? Sicuramente non alla speranza che di noi sopravviva un puro spirito. Perché ciò che ci individua è il corpo, e consolarci pensando che il nostro spirito, volato via dopo la morte, continui a esistere è, da una parte, uno sproposito, per così dire, grammaticale, dal momento che lo spirito non ha alcunché di organico, dunque né vive né tantomeno sopravvive. Dall’altra, è un assurdo psicologico, perché non ho dubbi circa il fatto che il teorema di Pitagora che penso in questo momento sia destinato a sopravvivere; ma mi chiedo in che cosa la sopravvivenza del teorema di Pitagora dovrebbe confortarmi rispetto alla mia sparizione individuale. Lo stesso vale per un argomento affine all’immortalità dello spirito, e cioè quello secondo cui siamo tutti parte di un’unica vita, e la materia che ci compone sarebbe destinata a risorgere in altre forme e sotto altre specie. Anche qui, pensare che le particelle subatomiche che mi compongono nel momento in cui muoio potranno riciclarsi in mele, biciclette, scoiattoli, mi consola anche meno della sopravvivenza del teorema di Pitagora al di là della mia fine individuale.
Non nascondiamocelo, la forza dell’idea della resurrezione dei corpi sta nel fatto che a rinascere siamo noi, proprio noi, non i pensieri che abbiamo pensato, o le generiche particelle che compongono i nostri corpi. Né che si tratta del risorgere di un ossimorico «corpo spirituale», qualcosa di simile ai fantasmi, corpi visibili, ma capaci (nei cartoni animati) di passare attraverso i muri. Non dimentichiamoci che quando Cristo ricompare ai discepoli nella Pentecoste, mangia sotto i loro occhi un pesce per dimostrare che quanto ha recuperato dopo la resurrezione è un corpo vero e proprio, non un corpo virtuale. Ho scritto la parola «virtuale», e immagino che a questo punto qualcuno avrà pensato a una resurrezione nel metaverso. Tutti i corpi risorgeranno in un ambiente asettico ed ecologicamente sostenibile, sia pure al prezzo di elevati consumi di energia elettrica. Ho tuttavia l’impressione che una simile risurrezione creerebbe poco più che un cimitero troppo movimentato, e babelizzato da un profluvio di ChatGPT impegnate ad attribuire discorsi verosimili agli intestatari dei corpi virtuali, i cui corpi reali sono, però, morti e sepolti.
C’è tuttavia un modo per concepire la resurrezione dei corpi che non scada nella fantascienza e che rispetti sia il valore insuperabile della morte, sia la speranza della resurrezione. Perché, da una parte, è indiscutibile che la mortalità costituisce il tratto definitorio della vita di ogni organismo, che è vivo non in quanto sia il portatore di un qualche flusso misterioso, bensì in quanto è impegnato nel differimento più protratto possibile della morte attraverso l’opera del metabolismo. È dunque a partire dalla morte che noi possiamo comprendere che cosa è veramente la vita; e l’argomento decisivo per cui non ci sarà mai un automa vivente è che non avremo mai un automa morente, giacché sarà sempre possibile ripararlo, dunque farlo risorgere. Il che, detto per inciso, suggerisce che se mai dovesse aver luogo la resurrezione della carne, solo allora verrebbe meno la differenza tra gli umani e gli automi. E la differenza tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale si sarebbe annullata non perché la prima avrebbe raggiunto la seconda, ma perché la seconda si sarebbe assimilata alla prima, entrando in un ritmo di accensione, spegnimento e riaccensione tipico delle lampadine e dei telefonini, non degli organismi viventi e dunque destinati a uno spegnimento definitivo.
Non bisogna tuttavia dimenticare che, diversamente dagli altri organismi, quello umano è sistematicamente connesso con dei supplementi meccanici: apparati tecnici, società, cultura. In quanto meccanismi, queste protesi dell’umano possiedono, come ogni automa, la caratteristica di andare al di là della finitezza individuale. I dispositivi tecnici, la società e la cultura ci mettono in contatto con forme di vita lontane, per spazio e tempo, dalla nostra, e promettono, attraverso le istituzioni e le opere, di traghettare qualcosa di noi al di là del fiume dell’oblio. Come scriveva Champollion? «Ho raccolto, trattenendo il respiro per non ridurlo in polvere, un pezzetto di papiro, ultimo e unico rifugio della memoria di un re che, da vivo, forse stava allo stretto nel suo immenso palazzo di Karnak». Questa sopravvivenza è, per così dire, una resurrezione del corpus che offre una alternativa sostenibile alla resurrezione dei corpi. Da una parte, non snatura il tratto unico della vita, umana e non umana, ossia il suo destino di fine senza remissione. D’altra parte, però, sfruttando l’elemento specifico della forma di vita umana, ossia la connessione con supplementi tecnici, conferisce a questi ultimi un mandato non di resurrezione, ma di sopravvivenza.
Noi ce ne andiamo ma qualche cosa rimane, e qualcosa di autentico, che non ha nulla a che fare con una fantasmagoria di zombie che danzano nel metaverso. Se, insomma, coloro che si immaginano una qualche sopravvivenza di un corpo virtuale stanno semplicemente scrivendo la trama di un film dell’orrore, c’è un uso non fantascientifico del web, e della scrittura in generale, per garantire una sopravvivenza debole ma umana, legata alla crescita complessiva dell’alfabetizzazione e delle possibilità di espressione del pensiero. In fondo, la grande ingiustizia insita nel trionfo della fama sulla morte era che solo a pochissimi era dato di accedervi. Rimangono i re (se hanno uno Champollion), gli eroi e coloro che hanno acquisito quella forma ingrata di fama che è l’infamia; tutti gli altri cadono nell’oblio. Ma l’esplosione della scrittura attraverso il web moltiplica di colpo le possibilità di un sopravvivere che non snatura il carattere assolutamente singolare del vivere, ma porta qualcosa di noi al di là della morte. Pensiamoci, prima di scrivere delle sciocchezze sui social, perché in quel caso sarebbe come nelle parole conclusive del Processo di Kafka: «E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere».