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La storia di Costanza Piccolomini Bonarelli è risaputa, ma vale la pena tornarci, per chi non la ricordi bene o per chi semplicemente non la conosca ancora. Purché sia la storia sua, di Costanza, e non solo quella del ritratto scolpito che l’ha resa famosa, scolpito da un genio sadico, un uomo che ha cambiato il mondo con l’arte ma anche capace di una violenza disumana, purtroppo per niente anacronistica, anzi attuale. Un uomo incancellabile da qualsiasi moto culturale, incancellabile come la sua violenza, ma soprattutto una donna incancellabile da qualunque sfregio, da qualunque dannazione. Un’eroina.
Quella di Costanza Piccolomini Bonarelli è la storia di una donna libera, tenace, colta, raffinata, fortissima e intelligentissima, per sua fortuna o sfortuna anche bellissima. Nasce nel 1614 nobile ma per niente ricca, ramo cadetto — viterbese — dei senesi Piccolomini. A 11 anni si trasferisce a Roma col padre e la di lui moglie, la madre non l’ha mai conosciuta. Stanno nell’attuale via della Vite, lui per vivere fa lo staffiere. Nel 1628 riceve una dote di 45 scudi dalla Confraternita di San Rocco, e un’altra di 26 due anni dopo. Con quei soldi (e altri forse risparmiati dal padre) è maritabile: nel 1632, diciottenne, sposa Matteo Bonarelli, detto Matteaccio, trentenne scultore, restauratore e mercante d’arte lucchese. Vanno a vivere in vicolo Scanderbeg, ai piedi del Quirinale. Di fronte a loro abita Gian Lorenzo Bernini.
Bonarelli diventa allievo del genio, in quegli anni impegnato nei cantieri di San Pietro: nella basilica ci sono anche sue tracce, vari putti di marmo, tra cui quelli del sepolcro della Contessa Matilde. Costanza ha 22 anni quando incontra Bernini, che ne ha 38. Lei cogestisce la bottega del marito, lui diventa pazzo di lei. A lei decide di dedicare l’unico ritratto in marmo per cui non abbia avuto un committente disposto a strapagarlo. È una questione privata, la scusa per incontrarla senza nascondersi. A un certo punto diventano amanti, gli incontri si fanno segreti. Ne nasce uno dei capolavori di sempre della scultura, oggi tra i gioielli del Museo del Bargello di Firenze. «Scelta inaudita per un artista che metteva così la sua amante sullo stesso piano dei papi e dei re che si contendevano il suo scalpello», ha scritto Tomaso Montanari. Che descrive così quella meraviglia:
«La camicia aperta sul seno, i capelli senza acconciatura, le labbra che si schiudono in un sospiro sotto i nostri occhi. Se non in qualche perduto capolavoro dell’antichità, mai l’arte della scultura era arrivata a far trasparire da un freddo marmo la fremente sensualità di una donna con tanta potenza ed efficacia».
Altri dettagli da un altro storico dell’arte, Fabio Strazzullo:
«A grandezza naturale, il busto si erge su una base che è parte integrante dello stesso blocco di marmo di Carrara. Il volto perfettamente levigato è contornato da una folta chioma, da cui fuoriesce un ricciolo ribelle sul lato sinistro della fronte scoperta. Sono poi distinguibili: la fossetta sotto il mento, le labbra semichiuse da cui s’intravedono i denti e la lingua, gli occhi aperti e curiosi come se stessero osservando qualcosa che si trova dietro lo spettatore, ma soprattutto il seno destro rivelato dalla camicia semiaperta che evidenzia la forte intimità che lo scultore aveva con lei. Tutti elementi realistici che rendono l’opera un unicum della ritrattistica femminile di Bernini».
Ma questa è la storia di Costanza Piccolomini, prima che del suo ritratto scolpito. Costanza è libera e il marito piuttosto liberale. Costanza ha una relazione anche con Luigi, il fratello minore di Bernini. Quando Gian Lorenzo lo scopre, si sente tradito due volte e la passione perde ogni traccia d’amore, si fa violenza. Racconta un manoscritto anonimo trovato tra le carte del suo biografo Filippo Baldinucci :
«Disse una sera di voler andare la mattina seguente in campagna, al qual fine fece la mattina attaccare la carrozza: e invece d’andar fuori di Roma andò alle sue stanze dove lavorava, che son poste dietro San Pietro incontro alle quali era la casa della signora Costanza. Ivi giunto, dette ordine al cocchiere che stesse in un luogo determinato fino a tanto che egli non ricevesse ordine in contrario, e si messe a luogo proporzionato a osservare se vedeva uscire alcuno. Non stette molto che il fratello uscì di casa, essendo accompagnato dalla dama — mezza vestita, per essere allora uscita del letto — fino alla porta. Veduto ciò andò il Bernino dietro al fratello e trovatolo in San Pietro, con un pal di ferro malamente gli dette: arrivandogli a romper due coste e forse l’avrebbe ammazzato se (non) gli era levato di sotto».
(Commenta Montanari: «Fa una certa impressione pensare a Gian Lorenzo che prova a uccidere suo fratello in quella stessa basilica vaticana che stava cambiando volto grazie alla serie strepitosa delle sue opere. E d’altra parte questa vicenda segnò in maniera irreversibile il rapporto tra la famiglia Bernini e quel luogo sacro: oltre tre decenni più tardi, quello stesso fratello Luigi venne esiliato da Roma dopo essere stato sorpreso ad abusare di un ragazzino proprio nell’atrio di San Pietro, dietro le turate del cantiere del Costantino a cavallo del fratello»).
Ma la vendetta di Bernini non si limita al fratello. Manda un servo da Costanza con due fiaschi di vino in dono e appena lei ha le mani impegnate, quello la sfregia con un rasoio.
Ancora Montanari, su questa orrenda contemporaneità di Bernini: «Come il peggiore maschio italiano di oggi, Gian Lorenzo aggredisce fisicamente la donna che considerava sua proprietà. Una scelta terribile per tutti, ma ancora più atroce se fatta da un artista come lui, che della bellezza aveva la più profonda conoscenza».
Ma è proprio il legame tra bellezza e possesso che impressiona per la pervicacia con cui il maschio violento lo perpetua, in saecula saeculorum: se sei mia rendo immortale la tua bellezza con un capolavoro (o, se non sono Bernini, col «privilegio» carcerario del mio amore), se non sei mia uccido la tua bellezza con un gesto (una rasoiata, una coltellata, l’acido). Così sei mia comunque, dispongo di te fino all’estremo.
Qualche fonte diverge (il servo, secondo altre ricostruzioni, sarebbe stato arrestato prima). Ma Costanza paga duramente lo stesso. Accusata di adulterio, finisce rinchiusa nel Monastero di Casa Pia per aver commesso il crimine di atrox et grave delictum, il reato classico delle cortigiane.
Bernini invece la fa franca, da uomo potente. La madre supplica il cardinale Francesco Barberini, nipote di papa Urbano VIII, di allontanarlo da Roma per un po’: teme per l’altro figlio. Ma il papa in persona interviene e in esilio manda invece Luigi: è qui che il pontefice firma il documento che contiene la celebre definizione di Gian Lorenzo, «Huomo raro, ingegno sublime, e nato per disposizione divina, e per gloria di Roma a portar luce al secolo». Perché per secoli la cancel culture è stata questa: si cancella l’ignominia dell’uomo potente, che serve alla gloria (di Roma, della famiglia Barberini, di qualsiasi ragion di Stato) e si cancella l’abuso sulla vittima, che diventa colpevole. Con la pergamena papale che contiene quell’elogio eterno, si cancella perfino l’ammenda di 3 mila scudi con cui Bernini se l’era cavata.
Nel 1639, il genio sposa Caterina Tezio, altra donna bellissima, «la più bella di Roma», sua moglie per 34 anni. Felicità e molti figli. A Caterina però quel busto in casa non deve garbare troppo, così un anno dopo le nozze Gian Lorenzo lo regala a Giovan Carlo de’ Medici, in visita a Roma per comprarsi la porpora cardinalizia. È così che il capolavoro finisce a Firenze: prima agli Uffizi, accanto al Bruto di Michelangelo, poi al Bargello. Da casa Bernini sparisce anche metà del doppio ritratto dipinto in cui l’artista aveva raffigurato sé stesso e Costanza: via lei, resta solo lui, il suo autoritratto conservato alla Galleria Borghese, ben noto a generazioni di italiani anche perché è quello che compariva sulla banconota da 50 mila lire. Ma Costanza non sparì certo dalla testa di Bernini: anche il volto della Medusa dei Musei capitolini è il suo, sia pure non più lascivo, semmai contratto e sofferente. E c’è traccia di lei perfino nella Sibilla con Tabula Rasa di Velàsquez (che forse la conobbe, di certo vide il busto, e non a caso Bernini gli raccomandò Bonarelli per l’esecuzione di 12 leoni in bronzo per Filippo IV di Spagna, oggi al Prado).
Ma questa è la storia di Costanza, non dei suoi ritratti… Costanza esce di prigione nell’aprile del 1639: dopo una supplica al Governatore di Roma Giovanbattista Spada, viene «restituita al marito». Che, si diceva, era piuttosto liberale: non sarà stato sublime nell’arte come Gian Lorenzo, ma per umanità evidentemente lo sopravanzava. Matteo Bonarelli riaccoglie la moglie nella casa di vicolo Scarderbeg e muore nel 1654, non prima di averla nominata sua erede universale. Così Costanza si fa imprenditrice in proprio, proseguendo con profitto l’attività di mercante d’arte e diversificando commerci e investimenti tra gioielli, abiti e mobili. Intanto, un anno dopo la morte del marito dà alla luce una bambina, Olimpia Caterina, padre chiaramente ignoto. Costanza muore il 30 novembre 1662, non prima di avere assicurato il futuro della bambina nominando esecutori testamentari due religiosi: uno le sarà fedele, facendo studiare bene, in uno dei migliori collegi di Roma, la figlia di Costanza Piccolomini Bonarelli. Ultima curiosità: Costanza è sepolta a Santa Maria Maggiore. Rispettivamente 18 e 19 anni dopo, lì finirono anche Gian Lorenzo e Luigi Bernini. La Cappella Paolina della basilica è opera del padre, Pietro Bernini.
In conclusione, se a qualche seguace della cancel culture contemporanea venisse in mente di dannare il Bernini e prendere a martellate, reali o metaforiche, il busto di Costanza in quanto simbolo della violenza maschile, farebbe meglio a guardare il catalogo della mostra di due anni fa agli Uffizi, che espose il capolavoro accanto alle foto di donne di oggi, sfregiate dall’acido. Un modo, spiegò il direttore del museo Eike Schmidt, per «riflettere sull’efferata violenza dei forti contro i deboli. E meditare sul dolore inenarrabile della sopravvivenza». |