[2024 Recap] From K-pop to Nobel Prize: South Korea Emerges as Cultural Powerhouse
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29 Dicembre 2024di Cristina Taglietti
Il grande romanzo americano (che non c’è o forse ce n’è più di uno); l’emergere della letteratura africana; i grandi successi commerciali in serie; il crollo del premio Nobel sotto le mazzate del #MeToo e la sua faticosa ricostruzione. Mappare il panorama letterario di questo primo quarto di millennio diversificato e complesso, significa cercare di individuare, senza pretese di esaustività, i percorsi, le svolte, le tendenze di un’editoria a cui il marketing e la cultura digitale hanno levato la pelle indossata da secoli. Si tratta naturalmente di passare attraverso le maglie fitte della traduzione che molto lasciano indietro e di tenere ben presente che negli ultimi tempi i paletti del politicamente corretto, i temi dell’appropriazione culturale, dell’ideologia woke tendono sempre di più a ridisegnare i confini della narrativa, anche passata.
A novembre 2023 la lista dei cento libri fondamentali di questi primi 25 anni, stilata dall’ampia e qualificata giuria del «New York Times», da un lato ha incoronato sul gradino più alto del podio L’amica geniale di Elena Ferrante, grande saga napoletana lontana da ogni forma di sperimentalismo; dall’altro ha reso visibile un etnocentrismo culturale ereditato dal XX secolo con il suo immaginario letterario decisamente anglofono. Rare le eccezioni che comprendono, oltre alla scrittrice italiana, il cileno Roberto Bolaño, la cui figura leggendaria si impone subito dopo la morte, avvenuta nel 2003, all’apice della sua potenza creativa, e la francese Annie Ernaux, premio Nobel 2022.
Eppure l’ascesa fulminea dell’editoria africana e delle sue letterature (non ne esiste soltanto una, e la distinzione non ha nemmeno tanto a che fare con scrittori della diaspora e scrittori del territorio), è una delle storie più straordinarie degli ultimi 25 anni, con una generazione di narratori che si chiamano Binyavanga Wainaina, Chimamanda Ngozi Adichie, Taiye Selasi, Yaa Gyasi, A. Igoni Barrett, Ben Okri, figli adottivi o lontani parenti, dal punto di vista letterario, di Chinua Achebe, Ahmadou Kourouma, Ngugi Wa Thiong’o. Voci che oggi restituiscono la complessità di un continente che sempre più spesso riesce a ignorare i luoghi comuni e un immaginario incrostato di città caotiche, miserie, eredità postcoloniali e afflati occidentali, offrendo una lettura plurale che si discosta da ogni omologazione. Qualcosa di simile è successo con l’Est asiatico, fino all’esplosione contemporanea della nippomania che ha portato ovunque, oltre alle opere di Murakami Haruki, eterno candidato al Nobel, il manga. Ora lo sguardo lungo del mercato è fisso sulla Corea del Sud, al punto che anche il Nobel, a volte distratto da calcoli che non hanno a che fare con la letteratura, ha dovuto prenderne atto (quest’anno ha vinto Han Kang). Il premio più importante delle lettere è stato spesso messo sotto accusa per le scelte, tra cui l’assegnazione, nel 2016, al cantautore Bob Dylan che si è concesso il privilegio di snobbarlo. Imbarazzante certo, ma mai come nel 2018 quando, in pieno #MeToo, un grave scandalo di molestie sessuali e irregolarità finanziarie travolge l’Accademia svedese costretta, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, a non assegnare il riconoscimento.
Dal punto di vista delle forme letterarie in questi primi anni Duemila il postmodernismo è stato spinto ai limiti estremi, e quindi di fatto terminato da David Foster Wallace (morto suicida nel 2008), capace, nelle sue opere — da Infinite Jest a quel postumo e incompiuto testamento che è Il re pallido — di minarne la radice con uno stile unico, in cui, come disse l’amico Jonathan Franzen, si sente «l’odore di ozono» che esala «dalla precisione scoppiettante del costrutto che lui impartiva alle frasi». Qualcuno (non lui) lo ha chiamato «metamodernismo» ma forse la verità è che Wallace è soltanto Wallace. L’altro grande movimento della scrittura è stato oscillante tra memoir e autofiction che, pur con tutti i distinguo imposti dall’estrema permeabilità del genere, ha arruolato, a più latitudini e con declinazioni diverse, figure come Dave Eggers (L’opera struggente di un formidabile genio è datata 2000), Joan Didion, Rachel Cusk, Ben Lerner, Annie Ernaux, Emmanuel Carrère, Karl Ove Knausgård. Se la letteratura assorbe e a volte digerisce ciò che accade nella società — lo fa fatto con l’11 settembre o con la pandemia, per esempio — oggi i cambiamenti climatici e le emergenze ambientali che dominano il dibattito scientifico e politico fanno irruzione nelle tematiche di narratori come Richard Powers, Naomi Alderman, Jonathan Safran Foer che, dopo l’esordio sul terreno dell’autofiction con Ogni cosa è illuminata, sempre più spesso si concede incursioni in una forma di non fiction narrativa che ha al centro temi ecologici.
Certo, nessuno può mettere in dubbio che Le correzioni, romanzo cult di Jonathan Franzen, grande nemico dell’autofiction, uscito nel 2002, sia stato fondamentale per capire a che punto fossero gli Stati Uniti, tanto da garantirgli, otto anni più tardi, quando pubblica Libertà, la copertina di «Time». Prima di lui, nel 2000, era toccata a Stephen King, ma per molti King è già King nel 1977, quando esce Shining. Così come l’affermazione granitica di Philip Roth è tutto sommato di questo millennio: la sua produzione maggiore (almeno dal punto di vista quantitativo) è radicata nel Novecento, ma l’etichetta di gigante arriva negli ultimi vent’anni di vita (è morto nel 2018), quando, a più riprese, annuncia di non voler più scrivere. Sorte simile è toccata a Don DeLillo, a Cormac McCarthy, a Joyce Carol Oates, o, in Gran Bretagna, a Ian McEwan, che si sono costruititi una zavorra di autorevolezza e prestigio nel Novecento, ben spesa nel primo ventennio del Duemila. Cosa che è riuscita solto in parte a Donna Tartt, autrice di opere imprescindibili come Dio di illusioni e Il cardellino, ma che non ha costruito un corpus altrettanto forte nell’immaginario collettivo. Margaret Atwood ha dovuto aspettare gli anni Duemila, quando le serie streaming si affermano come storytelling di riconosciuta dignità, perché Il romanzo dell’ancella, distopia femminista contro il patriarcato, uscita nel 1985 in anticipo sui tempi, entrasse nel mainstream e le offrisse un riconoscimento condiviso globale.
Tra le micce che hanno acceso grandi falò polemici non si può non ricordare Le benevole (2006) di Jonathan Littell, nato americano in una famiglia ebrea di origine russa, ma di cultura francese: con le armi della fiction lo scrittore ha arroventato la più grande tragedia del Novecento che decenni di storiografia avevano cercato di raffreddare. Littell si cala nella mente di un ufficiale delle SS, raccontando, per la prima volta, la Shoah dal punto di vista dei carnefici. Accanto a lui, alla voce incendiari, c’è Michel Houellebecq, autore, nel 2015, di Sottomissione, finito in copertina su «Charlie Hebdo» proprio nel numero in edicola il 7 gennaio, quando il magazine satirico venne decimato dall’attentato islamista.
Le trasposizioni seriali, il marketing aggressivo, la comunicazione digitale sono stati alla base di grandi fenomeni di intrattenimento, come I l codice da Vinci (2003) di Dan Brown con i suoi 80 milioni di copie vendute nel mondo che affondano le radici in Italia. Due anni dopo, Millennium, serie (postuma) dello svedese Stieg Larsson, arrivava in libreria lanciando con Uomini che odiano le donne il giallo nordico. Morto l’autore, prima David Lagercrantz e ora Karin Smirnoff hanno raccolto il testimone. Millennium continua, eppure sembra passato un secolo.