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30 Gennaio 2024Italia – Politica: senza alternativa
Il 2024 è un anno di elezioni a livello internazionale. Decisive, fra tutte, le presidenziali americane, il 5 novembre, per il futuro degli Stati Uniti e per il mondo.
Il 2024 è un anno di elezioni a livello internazionale. Decisive, fra tutte, le presidenziali americane, il 5 novembre, per il futuro degli Stati Uniti e per il mondo. Vista la minaccia di Donald Trump, la posta in gioco non è solo l’accentuazione di qualche scelta politica nel riequilibrio delle posizioni interne, bensì il ruolo stesso dell’America e la visione della sua democrazia, l’ordine e il disordine internazionale, l’esito di due guerre, l’intero sistema di stabilità mondiale.
Si vota anche in Italia. Al confronto, per noi si tratta dello stagno di casa. Ma ha i suoi effetti. Non sono le politiche, ma l’insieme di diverse elezioni: da alcune amministrative alle europee. S’inizia dalla Sardegna (25 febbraio) e dall’Abruzzo (10 marzo). Mentre Basilicata, Piemonte e Umbria potrebbero essere accorpate alle elezioni per il Parlamento europeo, l’8 e il 9 giugno, assieme a qualche migliaio di comuni (con 6 capoluoghi di regione e 21 di provincia). Si potrebbe votare in autunno anche per l’Emilia-Romagna, qualora il presidente Bonaccini si candidasse all’Europarlamento.
La decisione governativa di celebrare in un’unica tornata, assieme alle europee, la gran parte delle elezioni locali, determina ancor più, nei comportamenti dei soggetti politici e nell’interpretazione che ne viene data, una connotazione nazionale dell’appuntamento. Le europee guidano simbolicamente l’interpretazione del risultato, nonostante si tratti di elezioni tra loro distinte, a motivo delle differenti leggi elettorali, che pongono ai singoli soggetti della coalizione di governo e a quelli di opposizione condizioni diverse dal punto di vista delle alleanze e della competizione. Condizioni che vanno nell’insieme a ridefinire i rapporti di forza nei diversi campi e tra i campi dello schieramento politico.
Il «caso Schlein»
Dopo un anno di governo di destra-centro e d’assenza d’opposizione (non parliamo di alternativa), si pongono alcune domande di fondo, che riguardano l’intero sistema politico. Che cosa succede dentro l’alleanza di governo e nell’area delle opposizioni? Qual è la condivisione o la divisione politica tra i diversi soggetti sui dossier significativi per il paese? Qual è l’ispirazione comune, la comune visione del futuro del paese? Qual è, se c’è, il «progetto paese» che i diversi soggetti condividono o sul quale si confrontano? Domande che riguardano l’identità politica sia del governo, sia delle opposizioni.
Se guardiamo alle opposizioni (meglio, alle minoranze), oggi è difficile persino definirne il campo. Il Partito democratico (PD) è ancora un partito di centro-sinistra? Con la segreteria di Elly Schlein si è aperta una fase diversa, con un’accelerazione del profilo radicale del PD, cioè del partito che negli ultimi 15 anni è stato l’asse centrale delle istituzioni. E che cos’è il Movimento 5 Stelle, oggi saldamente nelle mani di Giuseppe Conte? Quanto populismo rimane nel movimento? Sono in grado Conte e Schlein di definire chi di loro è di centro e chi di sinistra e di quale sinistra si tratti?
Poi ci sono gli altri. Che cosa sono oggi le due componenti divise di Calenda e Renzi? In che consiste il loro «centrismo», oltre la centralità dei loro rispettivi narcisismi? E che cosa sono le altre due componenti, l’Alleanza Verdi e Sinistra e +Europa? Più che soggetti politici assomigliano a correnti, raggruppamenti di singoli pezzi, persone singole, superstiti di storie politiche del passato.
Parlare di «campo largo», che raduni il maggior numero di soggetti, è già di per sé una definizione politicamente poco connotativa rispetto a definizioni come «centro-sinistra» (con o senza trattino). Si cerca un qualche accordo a geometria variabile, elezione per elezione, viste le diverse regole della competizione, piuttosto che una definizione politico-simbolica e politico-programmatica. Il paradosso è che, mentre le opposizioni si dividono in nome della retorica dell’unità, la coalizione di governo sta unita al potere in nome delle divisioni.
Il PD e i 5Stelle sono soggetti tra loro comparabili per peso elettorale (il PD è sotto il 20%; i 5Stelle sopra il 15%) e antagonisti sul piano della leadership, con una mai chiarita definizione politica. La linea tracciata nel 2020 da Articolo 1 di Speranza e Bersani e dal PD di Zingaretti e Bettini, che individuavano in Conte «l’unico leader della sinistra progressista», dà oggi i suoi frutti avvelenati. Proprio oggi che Articolo 1, dopo la scissione del 2017 a motivo dell’eresia renziana, si è ricongiunto in forma paritaria al PD, avendone ottenuto la segreteria grazie agli esponenti dell’ultima leva democristiana, Dario Franceschini ed Enrico Letta, il PD non riesce a proporsi come partito federatore dello schieramento.
Per questo, il PD ha ripiegato, senza successo, su un federatore esterno, una figura terza tra la sua segretaria e il «miglior leader progressista». Proposta che manifesta il fallimento dell’operazione Schlein, analogamente al retorico riferimento a un «nuovo Ulivo». I nomi hanno una storia ed essa non si ricrea una volta che si è conclusa. Quel nome poi, proprio nel suo significato politico, evoca oggi semmai tutta la distanza, tutta la diversità e tutto l’arretramento politico dal passato, non l’ipotesi della rinascita di quell’esperienza.
Quando Prodi, a modo suo, ha rifiutato l’incarico di federatore che la segretaria del PD gli avrebbe conferito volentieri, ribattendo che semmai quel ruolo toccava a lei in quanto segretaria del partito, ha posto a Elly Schlein il problema politico di fondo: quello dell’identità del PD e della coalizione; e quello della leadership, del partito e della coalizione.
Conte non vuole il «campo largo», a meno che non ne sia lui il leader. Detta l’agenda politica. Schlein insegue. Grazie al Quirinale, sinora il PD ha tenuto una linea autonoma in politica estera, sull’atlantismo e sull’Europa. Ma le ultime dichiarazioni di Schlein su Israele rendono ambigua anche quella posizione. Per il PD non ci sono alternative all’utilizzo delle primarie di coalizione per dirimere il dualismo e cercare l’elaborazione di una linea politica riformatrice. Del resto proprio Schlein è l’esito delle primarie, seppur usate strumentalmente per fare perdere Bonaccini. Il governatore era il rappresentante degli amministratori del PD (un po’ come Zaia nella Lega salviniana), la sua elezione alla segreteria avrebbe comportato qualche rinnovamento a scapito del ceto politico «romano», scarsamente dotato di peso elettorale. Ora l’esito di quell’operazione porta al fallimento del PD.
Il lodo Meloni
Non c’è spettacolo migliore che si possa evocare del voto alla Camera sul Meccanismo economico di salvaguardia (MES), il 21 dicembre 2023, per descrivere il caos italiano. Il governo, col ministro dell’Economia Giorgetti, aveva promesso a Bruxelles un voto favorevole del Parlamento e la tanto attesa ratifica del MES. All’indomani, il governo si è diviso. Fratelli d’Italia (FdI, il partito della premier) e la Lega (il partito di Giorgetti) hanno votato contro, Forza Italia (il partito dell’ex presidente del Parlamento europeo Taiani) si è astenuta. Meglio sono riuscite a fare le opposizioni, che su quel voto avrebbero potuto mettere in difficoltà il governo. Conte, che da presidente del Consiglio aveva firmato quel provvedimento, ha votato contro assieme a Lega e a FdI; il PD ha votato a favore assieme a Calenda, Renzi e a +Europa; il resto della sinistra si è astenuto.
Un voto che fa perdere credibilità all’Italia e alla premier Meloni in Europa, ridicolizza il ministro dell’Economia e mostra lo stato confusionale delle opposizioni. Il PD non ha alcuna coerenza politica e non esprime alcuna leadership. Non a caso Giorgia Meloni ha scelto proprio la segretaria del PD come principale avversaria alle europee, costringendola all’angolo sull’inutile dibattito «mi candido, non mi candido».
Diverse sono le contraddizioni dello schieramento di destra-centro. Qui si confrontano le varianti di due destre populiste e sovraniste (Meloni e Salvini), dai diversi e irrisolti passati e dall’elaborazione culturale precaria, nonostante i sogni gramsciani del ministro della Cultura Sangiuliano, e un resto del centro-destra, che fu di Berlusconi, dal destino incerto.
FdI ha tuttavia il doppio dei consensi dei suoi due alleati-antagonisti (il 29% contro il 7% di Forza Italia e l’8% della Lega), ed è inevitabile che punti a un riequilibrio delle rappresentanze di potere in sede locale ed europea. Il problema della premier è che non ha classe dirigente adeguata, soprattutto in sede locale. E sinora non è stata in grado di fare «campagna acquisti» di quadri dirigenti dalla società civile, come fece dall’inizio Berlusconi.
Il punto di svolta su cui punta Meloni, a partire dall’esito delle europee, è la proposta di riforma costituzionale. Non è casuale che si punti al premierato e non al semi-presidenzialismo. Il premierato è la vera rottura con la Prima repubblica. Dopo la caduta della Costituzione materiale della Prima repubblica, Meloni mira alla trasformazione della poliarchia istituzionale.
Le ultime due presidenze della Repubblica, Napolitano e Mattarella, erano figlie del bipolarismo e di fronte a eventi eccezionali (le crisi finanziarie globali del 2007-2008; le pulsioni disgregatrici della globalizzazione e i rigurgiti dei populismi, la pandemia, la guerra in Europa) il Quirinale ha assunto con crescente autorità l’esercizio dei suoi poteri, sviluppandoli su tre direttrici: la politica estera, quella economica e di difesa.
Con i due governi tecnici, Monti (per Napolitano) e Draghi (per Mattarella), si è esplicitato questo cambiamento che ha riguardato la tenuta istituzionale e internazionale del paese, di fronte a una crisi del sistema politico irrisolta e a un Parlamento ridicolizzato dalle segreterie dei partiti.
Meloni, in un difficile scambio con l’autonomismo della Lega, tenta ora (molto dipende dalle europee) di dirottare il potere sul premier, rendendo ininfluente il ruolo del presidente della Repubblica e non migliorando quello del Parlamento. Meglio sarebbe completare l’evoluzione del sistema reale, agendo, al contrario, sulla dignità della rappresentanza e sul semi-presidenzialismo. Riformare la Costituzione significa agire sui simboli fondativi e sulla piena legittimità dei riformatori.
La costante polemica fascismo/antifascismo paradossalmente nuoce alla sinistra, tenendola retoricamente occupata e lontana dalla costruzione di una vera alternativa politico-culturale di governo, che salvi la cultura costituente e i suoi valori e ne adegui le istituzioni.
Gianfranco Brunelli