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A cinque giorni dall’approvazione da parte del Consiglio dei ministri il testo della legge di Bilancio, atteso all’inizio della prossima settimana in Parlamento, non è ancora stato completato e già una delle norme più discusse, quella su “Opzione donna”, potrebbe cambiare. Tempestata dalle critiche, innanzitutto dei sindacati e di alcuni costituzionalisti e di tutte le opposizioni, la norma potrebbe infatti tornare alla versione originale. Anziché legare l’età di uscita al numero dei figli, ipotesi messa nero su bianco nel comunicato del Consiglio dei ministri, verrebbero semplicemente prorogate di un anno le regole attuali che consentono alle lavoratrici di lasciare in anticipo il lavoro con 35 anni o più di contributi una volta compiuti 58 anni le lavoratrici dipendenti e 59 anni le autonome.
Al ministero del Lavoro confermano di aver avanzato questa proposta rinviando la scelta finale al ministero dell’Economia che si dovrebbe occupare delle necessarie coperture. Dal Mef invece si aspettano che sia il ministero guidato da Marina Elvira Calderone ad individuare le risorse necessarie, rinviando eventualmente la questione in sede di esame parlamentare.
Su Opzione donna la manovra approvata lunedì prevedeva sì la proroga ma con una serie di modifiche: dal 2023 si potrebbe accedere a questa forma anticipo pensionistico solo e dopo aver compiuto 60 anni, che scenderebbero a 59 per le donne con un figlio e a 58 per le lavoratrici con due o più figli. Una modifica, che a parte le obiezioni di metodo dei sindacati («non ci avete consultato»), ha subito sollevato dubbi di incostituzionalità da parte degli esperti in materia, perché una distinzione di questo tipo potrebbe portare a sollevare la violazione del principio di uguaglianza. L’innalzamento dell’età, restringendo la platea delle beneficiarie, doveva servire a conseguire risparmi di spesa che però a conti fatti, rispetto ad un provvedimento che in tutto costa un centinaio di milioni di euro, si sarebbe rivelati poca cosa. Un altro buon motivo per fare dietrofront.
Una norma «discriminatoria», l’ha bollata Cecilia D’Elia del Pd. Una misura dal «deciso sapore di Ventennio che si è infranta di fronte alla Costituzione», l’ha invece definita Alessandra Maiorino dei 5 Stelle, mentre Vittoria Baldino parla di «preoccupante pressapochismo di chi dovrebbe governare il Paese in un momento così delicato». Tant’è che l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino dichiara che se «il Governo confermerà questa folle impostazione, ci batteremo in Parlamento per modificarla».
Ma la nuova manovra del governo ieri è finita al centro delle critiche anche per come sono state specificate le coperture. Nelle tabelle del Documento programmatico di bilancio (Dpb), oltre a pensioni, Reddito e Superbonus, figurano circa 15-16 miliardi di risorse tra entrate e tagli di spesa denominate «altre» coperture, senza dettagli, mentre ad esempio non compaiono gli extraprofitti, che pure secondo le anticipazioni dovrebbero generare circa 6 miliardi di entrate aggiuntive. «Ho visto tanti Dpb, ma uno in cui ci sono 16 miliardi di coperture sotto la voce “altro”, quello no, non l’avevo mai visto», ha commentato Luigi Marattin. Che su Opzione donna intende chiedere lumi direttamente a Giorgetti: «Perché mandare in pensione prima una donna che ha fatto un figlio 30 anni prima?», si è chiesto il responsabile economico di Italia Viva. Secondo Antono Misiani del Pd ci troviamo in una situazione «senza molti precedenti». Il suo sospetto è che dietro alle voci generiche inserite nel Dpb «si nascondano pesanti tagli di spesa e nuove tasse non meglio specificate». Per Mario Turco (M5S), «sono numeri in libertà. Come farà Bruxelles a valutare un documento così vago e inconsistente».