La Diana
26 Luglio 2024Elon Musk e la figlia transgender: «È un lui, ucciso dal pensiero woke»
26 Luglio 2024Le rotture poco consensuali con Togliatti, che attaccò pure Gide e Sartre
La luna di miele fra il Pci e gli intellettuali, quando Anna Maria Ortese viene cacciata dalla rivista Omnibus per le sue corrispondenze da Trieste era già finita, stava iniziando un secondo tempo.
Tito era stato appena “scomunicato” da Stalin, e come ci ricorda lo storico Aldo Agosti, «era già in atto la stretta internazionale fra i due blocchi, stava per nascere la Nato. L’articolo metteva involontariamente in difficoltà politica il Pci togliattiano, che non poteva criticare Tito su base nazionalista».
La scrittrice, ricorda ancora Agosti, non si allontanò tuttavia dal partito, per molti anni coltivò con esso un rapporto stretto se pure difficile; coniò anzi per definire il suo rapporto con esso la formula «liberalismo d’emergenza» in difesa delle democrazia contro governi che scivolavano sempre più a destra.
Erano separazioni assai poco consensuali; proprio come quella, ben più clamorosa, tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti. Lo scrittore aveva legato la sua rivista Il Politecnico al Pci ma presto si accorse che la sua linea cozzava contro lo storicismo togliattiano e in genere comunista, per il quale ad esempio l’esistenzialismo e la psicanalisi erano «misticismo della cultura».
Fu un addio rumoroso che implicò ovviamente la chiusura della pubblicazione, seguita dopo qualche anno dall’abbandono del partito da parte dello scrittore. «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato», scrisse beffardamente su Rinascita il leader comunista con l’abituale e riconoscibilissimo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, fulminandolo con un perentorio «a dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora».
Il Migliore non ci andava per il sottile. Toni ancor più sprezzanti – oggi quasi incredibili – ebbe per André Gide, Premio Nobel 1947, divenuto anticomunista dopo un celebre viaggio in Urss: «Se quando ha visitato la Russia nel 1936 gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch’egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese!» In un’altra occasione invitò a non dargli alcun ascolto, perché quando parla «vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista».
Ruggero Guarini raccolse in un libro, I primi della classe, un’antologia di stroncature e maledizioni non da poco, come quella di Mario Alicata che attaccò Moravia per Il conformista (nel maggio del ’52) chiedendosi «che fegato ci vuole a raccontare che la ragazza di buona famiglia non è stata solo l’amante dell’amico di papà, ma ha anche provato a fare la lesbica».
Togliatti in contemporanea scriveva che «quando si parte da Freud si può andare a finire molto lontano, in una casa di tolleranza o in un manicomio», e che Jean Paul Sarte, di cui poi divenne peraltro amico, si «è imbrancato nei bassi servizi dell’anticomunismo commerciale».
Fu un’età anche (non solo) di anatemi, destinata a maggior moderazione (in parte) negli anni ’60, quando ad esempio Rossana Rossanda divenne responsabile della commissione nazionale di cultura e, come ricorda Luciana Castellina, riuscì ad aprire il partito: «Così gli astrattisti continuarono ad essere tali, ma anche a iscriversi al Pci».
E tuttavia, come racconta Carlo Feltrinelli in Senior service, il libro dedicato a suo padre, quando si trattò di pubblicare Il dottor Zivago, di cui Giangiacomo aveva i diritti internazionali, le pressioni da parte del Pci perché ciò non avvenisse furono enormi; coinvolgendo la stessa Rossanda.
Qualcosa del genere accadde quando Luchino Visconti decise di girare il film sul Gattopardo, romanzo uscito postumo sempre per Feltrinelli nel ’58, e fortemente avversato perché considerato reazionario (per molti aspetti lo è). Almeno il film, secondo Alicata, critico di stretta osservanza, doveva rovesciarne il senso, come ha ricordato Francesco Piccolo in La bella confusione. Non avvenne.
In questa lunga vicenda di amori e censure resta cruciale il primo decennio dopo la liberazione, come ci ricorda Alessandro Barile che al tema ha dedicato una studio appena uscito per Franco Angeli, Una disciplinata guerra di posizione: «C’è stata una larvata e generalmente accettata subordinazione da parte degli intellettuali, ma l’alleanza voluta da Togliatti ha funzionato, perché ha rafforzato entrambi. Poi a poco a poco l’intellettuale tende a riprendersi il margine di autonomia, con le conseguenti rotture e insubordinazioni».
Nel fatale ’56, ad esempio, con l’invasione dell’Ungheria. «Il rapporto con gli elettori si salva. Quello con gli intellettuali muta e muterà ancora nel ’68» ci dice lo storico e politico Federico Fornaro, autore del recente Giacomo Matteotti, l’Italia migliore (Bollati Boringhieri).
E ricorda il manifesto dei 101, intellettuali e politici contro l’invasione, molti iscritti al Pci, che l’Unità si rifiutò di pubblicare. O l’addio di Calvino, ma questa volta gli furono concesse pubbliche “dimissioni” e il quotidiano del partito non poté non pubblicare la sua lettera.