Francesca Mannocchi
tel aviv
Aviram Meir esce dalla stanza dove i parenti degli ostaggi ieri hanno ricevuto i deputati dell’opposizione. Aspetta notizie su suo nipote, Almog, portato via dal Nova Festival il 7 ottobre. La prova del suo rapimento è in un video che lo ritrae a terra in una stanza semibuia. L’ultima prova di vita ai primi giorni di dicembre. All’inizio, come tutti, è sceso in strada, ha organizzato il presidio di fronte al Ministero della Difesa, trascorre da tre mesi le sue giornate al comitato per la liberazione, circondato dalle foto degli ostaggi. Su alcune di esse una scritta rossa riporta le parole «assassinato da Hamas», su altre qualcuno col pennarello nero ha scritto «Home!», sono le immagini dei 110 rilasciati grazie agli accordi. L’ultimo però è di 7 settimane fa. Da allora, dice, nessuno fa più niente. E vogliamo i vivi, non vogliamo che tornino a casa, ammesso che ci tornino, nei sacchi neri. Per Aviram la soluzione, oggi, è solo una: interrompere le operazioni militari e non consentire che gli aiuti umanitari raggiungano la Striscia. Solo così, pensa, i miliziani saranno forzati a uscire dai tunnel e ci sarà una speranza di vedere i loro cari ancora vivi.
Il contratto sociale tra civili e governo
«La tradizione ebraica dice che gli ostaggi vanno liberati e il prezzo non è importante, l’importante è riaverli a casa. Siamo cresciuti in una cultura in cui nessuno viene lasciato indietro, né i soldati in guerra, né tantomeno i civili».
«La tradizione ebraica dice che gli ostaggi vanno liberati e il prezzo non è importante, l’importante è riaverli a casa. Siamo cresciuti in una cultura in cui nessuno viene lasciato indietro, né i soldati in guerra, né tantomeno i civili».
Per questo, per lui, se non tornassero il contratto sociale tra i civili e il governo sarebbe spezzato per sempre, e avrebbe conseguenze a lungo termine, significherebbe una spaccatura difficilmente rimarginabile nella comunità e nella vita quotidiana degli israeliani, «a cominciare dalla motivazione con cui i soldati vanno in guerra».
È questo il cuore della crisi sociale, politica in Israele oggi, la spaccatura tra chi è disposto a sacrificarli in nome di un obiettivo militare e chi sa che se non tornassero bisognerebbe riscrivere da capo il patto sociale che fonda l’idea di sicurezza della società israeliana perché, dice Aviran «oggi non ci sentiamo più protetti e sta cadendo a pezzi l’impalcatura che sostiene la coesione della nostra società».
Il Paese, già molto diviso prima del 7 ottobre, a causa delle proteste di migliaia di persone contro la riforma del sistema giudiziario, durate quasi un anno, si era repentinamente riunito dopo il trauma dell’attacco di Hamas, ma oggi a più di cento giorni dall’inizio della guerra, le crepe cominciano a riaprirsi e il terreno su cui si stanno riaprendo è il destino degli ostaggi che restano a Gaza e di cui non si conoscono le sorti. Sono ancora centotrentasei. Il prezzo da pagare per ognuno è diverso. Per qualcuno corrisponde a cedere alla richiesta di cessate il fuoco da parte di Hamas, per altri è il rischio di un alto numero di vittime tra i soldati chiamati a combattere a Gaza, per altri ancora il prezzo è che nell’impegnativa e lunga guerra urbana altri ostaggi restino uccisi.
Un’opinione pubblica sempre più divisa
Sebbene Netanyahu abbia detto dall’inizio e continui a sostenere che la guerra sia necessaria per riportare a casa gli ostaggi, molti, anche all’interno dei vertici militari, cominciano a manifestare scetticismo sulla sua strategia. Come riportava il NYTimes due giorni fa, la lentezza nel raggiungimento dei traguardi delle operazioni militari, sta facendo maturare in molti funzionari della difesa, la conclusione che per riportarli a casa in vita l’unica via sia quella diplomatica.
Sebbene Netanyahu abbia detto dall’inizio e continui a sostenere che la guerra sia necessaria per riportare a casa gli ostaggi, molti, anche all’interno dei vertici militari, cominciano a manifestare scetticismo sulla sua strategia. Come riportava il NYTimes due giorni fa, la lentezza nel raggiungimento dei traguardi delle operazioni militari, sta facendo maturare in molti funzionari della difesa, la conclusione che per riportarli a casa in vita l’unica via sia quella diplomatica.
Una divisione politica sempre più conflittuale. Da un lato Netanyahu sostiene che l’unica strada percorribile per sradicare Hamas da Gaza sia la vittoria totale, dall’altra gli oppositori che lo accusano di vendere illusioni alle famiglie degli ostaggi, come il generale in pensione Gadi Eisenkot, ex capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, che parlando a una trasmissione televisiva ha detto che «è impossibile riportare indietro gli ostaggi vivi nel prossimo futuro senza raggiungere un accordo», parole che hanno avuto un’eco ancora più vasta, perché il generale, nella guerra di Gaza, ha perso suo figlio di 25 anni e suo nipote.
«La situazione a Gaza è tale che gli obiettivi della guerra devono ancora essere raggiunti – ha detto –.Per me non c’è alcun dilemma. La missione è salvare i civili, prima di uccidere un nemico». Nei corridoi del comitato nessuno è disposto a considerare gli ostaggi come il prezzo di questa strategia, o meglio di questa assenza di strategia. Yaov Engel è convinto che la direzione del governo, ora, non sia di riportare gli ostaggi a casa vivi, ma di riportarli nei sacchi neri. «Non è più una domanda, ma un fatto. Gli ostaggi sono il prezzo da pagare per annientare Hamas, non ce lo dicono ufficialmente, non possono farlo, ma nella pratica le vite dei rapiti sono il prezzo da pagare per raggiungere il loro obiettivo militare».
Da quando suo figlio è stato rapito dai combattenti di Hamas, il 7 ottobre, Yoav si è domandato ogni giorno, se la sua sarebbe diventata la famiglia di ex ostaggio o di una vittima. Ha avuto la risposta dopo 54 giorni, quando Ofir, 17 anni, è tornato a casa. Era stato rapito nel kibbutz Be’eri mentre trascorreva alcuni giorni di riposo con la famiglia della sua fidanzata. Della morte a Gaza del padre della ragazza hanno avuto notizia la settimana scorsa.
Una volta nella Striscia, il gruppo di persone con cui si trovava Ofir è stato diviso. Da una parte gli uomini dall’altra le donne. Nessuno di loro, secondo le testimonianze dei liberati, è stato trasferito nei tunnel, sono stati invece divisi in abitazioni private. Ofir non è stato picchiato né torturato, almeno non fisicamente. Racconta che ogni giorno qualcuno entrava nella sua stanza dicendogli che in Israele nessuno si stesse curando del destino degli ostaggi e una settimana prima della liberazione gli hanno fatto scrivere una lettera alla famiglia in caso di morte.
Dal primo giorno del rapimento Yoav è stato parte attiva del comitato per la liberazione degli ostaggi, credeva e crede tuttora che il cessate il fuoco sia il prezzo da pagare, non la vita dei cittadini. Per mesi ha vissuto con pragmatismo, dissociando le sue emozioni dall’unica cosa che era necessario fare: pressione sul governo affinché tornassero a casa.
La sorte dei prigionieri
Poi però gli ostaggi hanno smesso di tornare, i negoziati si sono interrotti, e ora la società e la politica israeliana sono divisi sulle risposte da dare a questa domanda: i due obiettivi della guerra – distruggere Hamas e liberare gli ostaggi – sono compatibili?
Poi però gli ostaggi hanno smesso di tornare, i negoziati si sono interrotti, e ora la società e la politica israeliana sono divisi sulle risposte da dare a questa domanda: i due obiettivi della guerra – distruggere Hamas e liberare gli ostaggi – sono compatibili?
L’alternativa è una soluzione diplomatica che potrebbe comportare la liberazione degli ostaggi in cambio del rilascio di migliaia di palestinesi da parte di Israele, insieme alla cessazione delle ostilità, come chiede Hamas. Yoav sa che la società è spezzata. Che mentre lui e gli altri volontari cercano di fare pressione sul governo, una parte del Paese è pronta a pagare il prezzo più alto: la vita dei rapiti. «Chiederei a ognuno di loro se è disposto a rinunciare alla vita di un figlio per un mese di sicurezza in Israele, perché di questo stiamo parlando. Un’illusione». Lo dice perché è convinto che non sarà la guerra a distruggere Hamas, «perché non è con le armi che si sconfigge un’ideologia».
Racconta che quando ha ricevuto la notizia del rilascio di Olaf, ha avuto esattamente la stessa sensazione del giorno in cui ha appreso quella del suo rapimento. Anche oggi «i sentimenti e l’anima sono sconnessi dal corpo». Un po’, dice, quello che sta accadendo oggi alla gente di Israele. Nessuno ha una strategia certa sul futuro di Gaza, nessuno sa rispondere al dilemma tra la vita dei prigionieri e l’annientamento di Hamas, nessuno sa dire cosa sarà di quel contratto sociale spezzato tra chi prometteva di essere l’unico garante della sicurezza di Israele e che oggi non sa dare risposta su cosa sarà la sicurezza di domani.