I giornalisti presenti ieri a Doha dicono di aver respirato un’aria più ottimista del previsto, per lo meno migliore di quella di giovedì quando si è aperto il tanto atteso tavolo negoziale per il cessate il fuoco a Gaza e lo scambio di prigionieri israeliani e palestinesi.

DI DETTAGLI non ne sono emersi, di certo si sa quello che i mediatori – Egitto, Qatar e Stati uniti – hanno affidato alla nota congiunta che ha concluso la due giorni: dialogo «serio e costruttivo», «atmosfera positiva», «minori distanze» tra le posizioni delle due parti, Hamas e Israele.

Sul tavolo c’è la proposta avanzata dal presidente statunitense Joe Biden a fine maggio e approvata con la risoluzione 2735 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sebbene il movimento islamico palestinese lamentasse ieri un allontanamento dai principi dettati dal piano Usa e si dicesse all’oscuro dei dettagli discussi a Doha.

I mediatori, si legge nella nota, hanno presentato un piano che colma le lacune consentendone una rapida attuazione e «si incontreranno di nuovo al Cairo prima della fine della prossima settimana, nella speranza di raggiungere un accordo sui termini stabiliti oggi».

Non c’è più tempo, aggiungono, «per portare sollievo al popolo di Gaza e calmare le tensioni regionali». Che è quello che di più preoccupa le cancellerie, tanto da spingerle a uno sforzo negoziale finora mai visto, nonostante si siano superati i 40mila palestinesi uccisi e Gaza sia ridotta in macerie, fisiche, psicologiche e sociali.

Rinviare tutto a un secondo round al Cairo, la prossima settimana, serve a guadagnare il tempo necessario a convincere le parti ma anche a rinviare ancora la risposta dell’Iran all’uccisione da parte di Israele del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, il 31 luglio. Secondo il New York Times, l’Iran avrebbe deciso di rimandare ancora la rappresaglia in attesa dell’accordo.

IERI IL SITO israeliano Ynet, citando fonti dell’intelligence interna, avanzava un’ipotesi di rappresaglia da parte di Iran ed Hezbollah: l’assassinio mirato di alti funzionari israeliani non meglio specificati, ministri, parlamentari, funzionari dell’esercito o dei servizi. Nelle stesse ore il ministro degli esteri Israel Katz, noto falco, incontrava a Gerusalemme gli omologhi di Gran Bretagna e Francia, David Lammy e Stéphane Séjourné, per comunicare cosa Tel Aviv si aspetta dagli alleati: che attacchino «target significativi in Iran», se Teheran dovesse colpire.

Insomma, un coinvolgimento diretto in una guerra regionale esplosiva. Opposta la visione delle decine di pacifisti israeliani che intanto manifestavano davanti al consolato britannico a Gerusalemme est per chiedere che Londra smetta di rifornire il loro governo di armi.

Molta più fretta dei mediatori ce l’hanno l’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Unicef che ieri hanno rinnovato l’appello a una tregua di sette giorni per poter procedere con le vaccinazioni anti-polio, nel pieno di una emergenza-contagi (che nelle passare settimane aveva allarmato anche i medici israeliani e spinto Tel Aviv a vaccinare i propri soldati) dovuta alle acque contaminate, effetto della guerra. Se Israele continua a bombardare, le agenzie dell’Onu non riescono a consegnare vaccini salva-vita, dicono Oms e Unicef, che vorrebbero procedere entro fine mese. All’appello si è unito ieri anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.

MA LE BOMBE non si fermano: mentre a Doha si discuteva di tregua, per Gaza era un giorno come un altro. Ad al-Mawasi, «zona sicura» del sud già ripetutamente colpita, ieri sono stati uccisi tre bambini e un adulto in un raid sulla tendopoli.

Bombe anche su Gaza City (almeno sette uccisi e tredici feriti) e sul campo profughi di Jabaliya a nord. A raccontarne è stato su al-Jazeera Hani Mahmoud: «Ambulanze e paramedici sono accorsi verso la casa colpita. All’arrivo, uno dei paramedici ha scoperto che era la sua casa e che la sua famiglia era all’interno. Sette uccisi, tra loro sua madre e suo padre». E poi raid israeliani su Nuseirat, Rafah, Deir al-Balah, Khan Younis. Proprio nella meridionale Khan Younis, seconda città gazawi per grandezza, ieri l’esercito israeliano ha emesso – per il secondo giorno consecutivo – un ordine di evacuazione che riduce ancora di più la zona definita come «umanitaria» (non affatto garanzia di salvezza).

 

L’ordine, con la relativa mappa della città divisa in blocchetti colorati come è ormai abitudine di Tel Aviv, è stata pubblicata dal portavoce dell’esercito Avichay Adraee sui social, piattaforme scarsamente accessibili ai civili per la carenza di elettricità come scarsa è la decifrabilità di blocchi e colori. Eppure, scrive in arabo Adraee, i palestinesi devono «andarsene subito». Non dice dove.

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