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Libri & librai
di Claudio Magris
Che mi si chieda di tenere una lectio ai librai è un po’ buffo, visto che conoscono il loro mestiere molto meglio di me. Parlare di un lavoro può soltanto chi lo esercita. Io l’ho fatto, per quel che riguarda la vendita di libri e in posizione più che subalterna, solo una volta, tanti anni fa. Avevo quindici anni e un mio amico — che frequentava già la facoltà di Medicina a Padova ma col quale, nonostante la differenza di età, condividevo molti interessi — faceva il rappresentante della casa editrice Vallecchi e mi aveva chiesto di dargli una mano. Il nostro compito era attaccare bottone a possibili acquirenti e convincerli ad acquistare qualche testo. Per ogni libro che si riusciva a piazzare si prendeva il 10% del suo prezzo; se il merito dell’operazione andava a me, trattenevo la metà dell’incasso e l’altra metà se la teneva il mio amico.
Quest’attività non durò a lungo; ero riuscito a convincere due persone, un avvocato triestino che amava i grandi testi filosofici e acquistò il Convito di Platone in una classica traduzione ottocentesca di Francesco Acri, e un medico appassionato di storia, interessato da un titolo, Gli Unni in Toscana, che lo aveva colpito perché pensava, giustamente, che gli Unni non fossero mai arrivati in Toscana. Quando ricevette il volume, lo respinse perché parlava dei nazisti e delle loro violenze in Toscana alla fine della Seconda guerra mondiale, chiamandoli Unni quale metafora della loro barbarie. Naturalmente restituii la mia piccola percentuale; comunque questa attività in perdita mi diede occasione di leggere molti romanzi e racconti di autori toscani, come Viani, Cicognani e altri.
Il libraio deve essere informato di tutte le novità che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con i libri, quali famosi valletti e vallette hanno discusso e presentato dei testi, in quali sedi e in quali programmi televisivi. Un’informazione come questa coincide con ciò che chiamiamo ancora cultura, la potenzia o la indebolisce nella sua sostanza e nella sua durata?
La scorsa estate, a Trieste. Una signora entra in una bella ampia libreria, ricca di volumi d’ogni genere, al centro della città, non lontano dal Canale e, poco più in là, del grande mare che si apre familiare e oceanico come un grande fiat del nulla. È su queste rive e in questo golfo che Conrad ha visto il mare per la prima volta, in un viaggio da Venezia, diventando mare lui stesso. La signora, entrata nella libreria, chiede Kim di Kipling. La libraia tergiversa, per non far capire che quel nome non le dice nulla. Sembra una suora in chiesa che, se qualcuno le domanda se c’è un messale, non capisce che cosa le venga chiesto.
Questo insignificante episodio è una piccola carta d’identità del nostro presente. Da ragazzo andavo spesso nelle librerie, non solo quando avevo già in mente uno specifico libro da comprare, ma soprattutto per vedere cosa c’era, come si va a vagabondare in un bosco senza una meta precisa. I libri esposti ed imposti con evidenza aggressiva mi mettono a disagio, mi danno voglia di uscire. Ho sempre amato le librerie che hanno un po’ di tutto, più di quelle specializzate o di quelle antiquarie — Trieste ne ha certo di gloriose, basti pensare a quella di Saba. Ma non ho mai amato la rarità, anche se il valore e il prezzo delle cose si fondano spesso su di essa. Amo le edizioni economiche, i tascabili che — a parte la maggior accessibilità — si possono portare con sé anche quando si va al mare, senza paura di sciuparli con la sabbia o l’acqua.
È al bagno popolare Cedas, a Barcola, che ho letto per la prima volta Isaac Bashevis Singer, il racconto Il non veduto, che mi ha cambiato la vita. Mezz’ora dopo averlo finito e dopo un ultimo tuffo in mare sono andato a comperare una busta e carta da lettere e gli ho scritto, su una panchina vicino al mare, una lettera per dirgli il mio amore per quel racconto che stava incidendo, così fortemente, il mio modo di vedere l’amore, la fedeltà e l’infedeltà, la morte. Gli spedii subito la lettera — inviandola, perché non avevo il suo indirizzo, al suo editore di New York, Farrar Straus, che sarebbe diventato, anni dopo, l’editore americano del mio Danube. Lui mi rispose subito e ne nacque un rapporto personale, anche incontri a Wengen, in Svizzera, dove lui andava in vacanza.
Questi rapporti sono diversi da quelli soffocanti con le pile di libri che intasano le librerie ostacolando i passaggi e dove ogni libro sembra voler torreggiare sugli altri e diviene involontariamente l’immagine dell’ impudicizia dell’Io, che segna tanta letteratura, ridotta a «latrina del cuore», per usare le parole di Flaubert.
Da studente liceale frequentavo soprattutto una libreria che aveva il fascino della serietà senza ostentazione, dove c’erano libri che si scoprivano di sorpresa, perché rivelavano mondi bizzarri, affiancati in una rispettosa compostezza, analoga a quella di un favoloso commesso mai invadente ma sempre pronto, con una deferente e dignitosa educazione di stampo austroungarico, a rispondere a domande senza mai scivolare nella réclame o nella presunzione.
In quella libreria un giorno era comparsa, restandovi per parecchio tempo, ben in mostra ma sempre con discrezione, una traduzione del Ramayana, il grande poema sanscrito indiano di Valmiki, tradotto da Gaspare Gorresio per l’editore Spartaco Giovene di Milano, pubblicato decenni prima. Aveva aspettato parecchio tempo, senza fretta, un compratore, finché sono arrivato io e l’ho acquistato. Come l’altro epos sanscrito, il Mahabharata, è uno dei poemi dell’umanità che trascendono la poesia stessa, che dicono il tutto e la sua distruzione, la vita e la morte, la passione e l’infamia; il Big Bang e il suo annientamento, la grazia incantevole e la feroce crudeltà.
Anche per quel che riguarda i libri, il mercato è la potenza sempre più aggressiva, la carta che regola tutto il gioco. Non per questo è necessario inchinarsi servilmente ad essa. Il Codice da Vinci ha venduto milioni di copie, ma anche il Lotto non scherza in fatto di simile fortune. L’ultimo, duro ritratto della vita editoriale e delle sue battaglie fatto da Gian Arturo Ferrari nel suo recente saggio, dà spesso l’immagine di una guerra in cui si può essere mangiati.
Ho avuto il privilegio di scrivere per case editrici grandi sotto ogni punto di vista, cui mi sento e mi sentirò sempre debitore. In genere è nelle più varie librerie del mondo che ho avuto gli incontri più vivi e creativi in occasione delle traduzioni dei miei libri e sono grato ai loro librai che avevano saputo creare un fertile humus adatto a nuove fioriture di quei testi in altre lingue.
Ho avuto anche spiacevoli e comiche avventure legate a sgradevoli e inquietanti imprese editoriali. Negli anni del miracolo economico italiano, case editrici e librerie di successo potevano nascere con una disinvoltura simile a quella della speculazione edilizia, che ha sconciato il paesaggio di non poche città, in cui l’espansione economica era una lotta senza quartiere.
Mi ero laureato da poco, a Torino, in Lingua e letteratura tedesca ed ero assistente straordinario alla facoltà di Magistero dell’Università di Trieste, con uno stipendio decisamente modesto. D’improvviso fui contattato da Aldo Ferrabino, storico romano, senatore e figura eminente che tirava le fila di molte iniziative. Si stava formando, per iniziativa di una casa editrice americana, un suo ramo in Italia, che si sarebbe chiamato Spade, avrebbe avuto quale simbolo il Sette di spade e si sarebbe articolato in sette collane — storia, letteratura e così via — ognuna diretta da uno studioso italiano. A me fu affidata la Letteratura. Dovevo scegliere una linea editoriale, i testi da far tradurre, i traduttori, controllare le traduzioni e curare le introduzioni. I viaggi tra Trieste e Milano e l’albergo erano a mie spese; per fortuna dormivo e mangiavo a casa di mia zia Esperia, una fortuna che gli eventi successivi avrebbero resa ancora più preziosa.
Mi misi all’opera con entusiasmo. Il primo volume doveva essere un bellissimo romanzo di Johannes Urzidil, scrittore praghese di lingua tedesca, tipico e originale — e allora poco noto — rappresentante di quella Praga di Kafka e di altri grandi autori di lingua céca e tedesca che è stata una straordinaria capitale della letteratura. Ho anche trovato un fine traduttore triestino, Mario Nordio, che aveva vissuto a Praga e conosceva bene il cosiddetto Prager Deutsch (detto anche Sparkassendeutsch, tedesco «da cassa di risparmio»). Il considerevole compenso sarebbe stato pagato mensilmente, a lui come a me e agli altri direttori e traduttori.
Alla fine del primo mese non arrivò alcun assegno, né a me né ad alcun altro ingaggiato a vario titolo nell’impresa. Rassicurato dalle spiegazioni del ritardo datemi dal direttore generale della casa editrice, continuai nel mio lavoro, del cui rapido ed egregio procedere Nordio mi teneva informato con entusiasmo. Alla fine del quarto mese, privo non solo dei compensi pattuiti ma anche di ogni notizia, andai alla sede centrale della Spade deciso ad avere il mio. Non c’era neanche la porta; mi aggirai come un fantasma nelle stanze vuote e chiesi al portiere cosa fosse successo. Da mesi, mi disse, nessuno aveva ricevuto lo stipendio e alla fine erano stati portati via anche i mobili.
Alla cocente delusione per il mancato ingresso nel mondo del miracolo economico si aggiungeva l’imbarazzo di rivelare il disastro a Mario Nordio. Ci demmo un appuntamento al bar Rex di Trieste. Lui arrivò con aria trionfante. «Sto finendo!», mi gridò mentre attendeva, dall’altra parte del Corso, il semaforo verde. Poco dopo, seduti al caffè, non finivo di offrirgli cappuccini, birre, spuntini, per procrastinare la caduta del velo di Maia. Decisi che glielo avrei detto cinque minuti dopo ma che in quei cinque minuti non ci avrei pensato e mi sarei goduto la bella giornata d’autunno, il traffico che scorreva, la belle signore che mangiavano pasticcini. Quando, allo scadere dei cinque minuti, gli raccontai tutto, lui, desolato, non fece che ripetere: «Dio che pecà, che pecà…». Per fortuna il libro era molto bello e fu pubblicato qualche tempo dopo da Rizzoli, in una versione riveduta da Vittoria Ruberl e più tardi ancora da Adelphi, in una traduzione di Elisabeth Dell’Anna Ciancia.
Il secondo — e ultimo, almeno finora — infortunio di cui sono stato vittima avrebbe potuto avere conseguenze ben più disastrose per me. Poco prima di partire per il servizio militare, allora ancora obbligatorio, avevo ricevuto la proposta di collaborare ad una nuova enciclopedia che nelle ambizioni del proprietario-editore avrebbe dovuto surclassare la Treccani come la Britannica. Erano gli anni del miracolo economico, con la sua crescita selvaggia; il proprietario-editore di questa enciclopedia si era fatto una fortuna nel mercato edilizio. Assomigliava fisicamente ai personaggi di Grosz o alle figure di capitalisti in Miracolo a Milano di De Sica. Io avrei dovuto scrivere, nella parte dedicata alla Germania, un profilo di storia tedesca e un profilo di storia della letteratura tedesca. Il compenso era buono, il carattere divulgativo del testo non rendeva necessaria una minuziosa consultazione nelle biblioteche e avrei potuto scribacchiare i due profili in qualche caffè nelle ore di libera uscita dall’esercito. Conclusi il mio lavoro puntualmente e puntualmente ricevetti il compenso; non conservai i miei testi perché si trattava di una decorosa divulgazione senza alcuna pretesa.
Ero appena tornato a casa, finito il servizio militare, quando mi arrivarono le bozze. Il profilo di storia letteraria non presentava problemi, era il mio testo. Quello di storia della Germania era stato nazificato, si parlava di comprensibili reazioni alla prepotenza ebraica e cose del genere. Agitato, telefonai all’editore, commettendo l’imprudenza di dirgli che non avevo il mio testo originale. Lui mi disse che senza l’originale non potevo fare nulla e che lui avrebbe stampato la versione modificata; alle mie proteste mi chiese in quale sinagoga ero stato circonciso, io risposi con violenza ma, quando lui chiuse il telefono, ero spaventato. Se il testo fosse stato pubblicato in quella versione falsificata sarei stato rovinato, avrei iniziato la mia carriera in qualità di antisemita…
Ma, a brigante, brigante e mezzo. Da militare, al Car di Pesaro, ero diventato amico di un commilitone, il «biondo di Piacenza», che lavorava ai Luna Park e sapeva menare le mani. Mi era grato perché una volta, in libera uscita, vedendolo ubriaco, l’avevo preso sotto braccio per portarlo in caserma prima che lo fermasse la ronda, ma lui, mentre, fermati, io dicevo al sottotenente che si era sentito male e che stavo portandolo in infermeria rinunciando ad andare al cinema, gli aveva dato dello «stronzo» e tutti e due eravamo stati sbattuti in cella di rigore. Da allora mi era riconoscente ed eravamo rimasti in contatto anche finita la naia.
Conclusa la conversazione con l’editore, telefonai al mio amico di Piacenza e gli chiesi se poteva aiutarmi. Si trattava di recuperare l’originale del mio testo, che si trovava nella casa editrice. Lui si informò di quanti impiegati c’erano, se c’erano guardie armate, nel qual caso non avrebbe purtroppo potuto far nulla. «Altrimenti non ti preoccupare. Se proprio sarà necessario ne tirerò giù uno, ma vedrai che non lo sarà».
Presi il treno quella notte stessa, lui mi aspettava al mattino alla stazione di Milano e dopo una bella colazione suonammo agli uffici della casa editrice e ci aprirono. Fu più facile di quanto temessi. Ho trovato, nella stanza dove erano avvenuti i colloqui con l’editore, il mio testo originale e l’ho gettato dalla finestra, all’amico che attendeva sulla strada, poi me ne sono andato. Dopo una mattinata dedicata a fotocopiare il mio testo originale, ad autenticare ogni pagina, a depositarlo all’ufficio competente, tornai alla casa editrice consegnando la copia originale vidimata che l’editore fu costretto a pubblicare tale e quale, e me ne andai senza salutare.
Così la mia brillante futura carriera non è stata stroncata.
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