U2 – Paint it Black
5 Giugno 2024S.O.S. centro storico
5 Giugno 2024di Enrico Nistri
Quando Firenze era la capitale della cultura italiana, c’era un caffè che era la capitale letteraria di Firenze. Si chiamava «birreria Reininghaus», dal nome dei fondatori, ma per tutti erano le Giubbe Rosse, dalle livree indossate all’uso viennese dai camerieri. Era stato aperto nel 1897 nella nuova piazza Vittorio Emanuele II, oggi della Repubblica, al pianterreno di un edificio di gusto neoclassico sorto sulle rovine del vecchio ghetto; ma nella parte posteriore inglobava i resti del trecentesco palazzo dei Catellini da Castiglione e ancor oggi ci si accorge della diversa volumetria e struttura delle sale.
All’inizio aveva avuto vita tranquilla; i suoi locali ospitavano un circolo scacchistico, fra i cui frequentatori però non mancavano personalità «esplosive» come Lenin. Ma la vera esplosione la conobbe con gli anni dieci del ‘900, quando divenne il ritrovo preferito degli artisti e letterati che animarono la stagione delle avanguardie. Se il caffè Michelangiolo di via Cavour era stato il locale dove i pittori macchiaioli condividevano l’aroma di sigaro toscano con letterati come Collodi, le Giubbe divennero la redazione informale di Lacerba , dove Papini e Soffici correggevano le bozze fra strepitanti discussioni che distraevano gli scacchisti ma trasformavano piazza Vittorio, ribattezzata da Palazzeschi «piazza Rottorio», nella fucina delle avanguardie.
Lo scoppio della guerra segnò anche a Firenze la conclusione di quelli che Roger Shattuck nel suo saggio sulle avanguardie francesi ha definito «gli anni del banchetto». Ma le Giubbe Rosse riuscirono ugualmente a mantenere la loro centralità nella cultura italiana. Morti Boccioni, Slataper e Carlo Stuparich durante la guerra, entrato il futurismo nell’Accademia d’Italia, convertitosi Soffici al ritorno all’ordine e Papini al cattolicesimo, divennero il caffè di Solaria e dell’ermetismo, di Montale, con i suoi eloquenti silenzi e di Elio Vittorini, di Gadda, Saba e Tommaso Landolfi, alle prese con i debiti di gioco e la polizia politica.
Ad attrarre i letterati non erano le comodità del locale, ma la tacita convenzione che ne faceva una calamita per artisti; lo stesso Vittorini, che lo definiva «scomodo, tetro, gelido e funereo d’inverno», non avrebbe mai rinunziato a frequentarlo. C’era in questo locale una magica attrattiva che sarebbe sopravvissuta negli anni ‘50 alla diaspora dei suoi più illustri frequentatori verso Milano o Roma. Nel secondo dopoguerra Montale e Pratolini non c’erano più, ma poteva capitare ancora di vedere Dylan Thomas, alcolizzato poeta celtico, arrivare di prima mattina con le sue cassette di birra o affacciarsi la rombante spider di Curzio Malaparte in una piazza della Repubblica non ancora pedonalizzata.
Fu una nuova, un po’ effimera giovinezza documentata dal bel volume Incontri alle Giubbe Rosse (Polistampa) pubblicato dal figlio del gestore Gino Pini, Arnaldo, fine bibliofilo e fondatore con Piergiovanni Permoli e Francesco Gurrieri, della rivista Il Portolano . Seguì, con i passaggi di proprietà, una triste decadenza, ma negli anni 90 le Giubbe Rosse conobbero un ritorno di fiamma grazie al nuovo gestore, Fiorenzo Smalzi, che abbinò alla concretezza di ex ufficiale di artiglieria da montagna un’intelligente consapevolezza delle esigenze dei letterati, compresa quella di passare qualche ora, con un «caffeino» consumato al banco, a scrivere, spettegolare o a leggere i quotidiani chiusi «a bacchetta» all’uso mitteleuropeo. Le grandi ombre di Papini o Montale non c’erano più, ma quando nel 2006, di passaggio per Firenze, il diplomatico e letterato Maurizio Serra, non ancora cooptato, primo italiano, fra gli «immortali dell’Académie Française, chiese a chi scrive di incontrarlo, gli parve naturale darsi appuntamento non dal Latini ma alle Giubbe Rosse davanti al generoso buffet da dieci euro allestito all’ora di pranzo.
Il resto è storia nota, anche troppo: i costi esorbitanti per allestire un brutto dehors imposto dall’alto, la velleitarietà dell’ultima gestione, la pandemia, le disavventure giudiziarie del nuovo proprietario. E tanti fiorentini che si affacciavano malinconici dinanzi alla serranda abbassata, con la sensazione di trovarsi, come in una pièce da teatro dell’assurdo, ad aspettare Godot. Oggi Godot non è arrivato, ma per fortuna con la prossima riapertura è finito l’assurdo di una città che assiste distratta alla morte di un caffè storico. E con essa all’eutanasia di una parte della sua storia.
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