E oggi quel sorriso, quella promessa di futuro – perché «un germoglio fragile, se trattato con cura, è destinato a diventare un albero con radici forti e rami robusti» – e lo stesso slogan che incornicia il disegno, «nessuno resti solo», risuonano vuoti e beffardi. Un’altra speranza al vento, un’altra illusione spezzata. In un angolo, sotto il murales, Bruno Mazza, fondatore e animatore instancabile dell’associazione “Un’infanzia da vivere” ha messo un secchio: dentro, le centinaia di siringhe che va raccogliendo ogni sera. Benvenuti al Parco Verde, seimila abitanti e zero servizi pubblici, vero aborto urbanistico ed esperimento sociale fallito. Causa persa, se non fosse per la tenacia e il coraggio di quelle poche voci che nonostante tutto continuano a gridare nel deserto.
Il deserto, nel Parco Verde che di verde ha fondamentalmente la rabbia, è quello delle istituzioni. Che non ci sono, non si vedono e se prendono iniziative lo fanno passando sul quartiere a carrarmato, senza tenere in considerazione le opinioni e la volontà di chi ci abita. Nelle ultime settimane, per esempio, si sono moltiplicati i malumori per la decisione dell’Asl di realizzare un ospedale di comunità: presidio importante e necessario, se non fosse che per costruirlo nello spazio prescelto si dovranno abbattere un paio di scuole e di una bella palestra. Funziona così, al Parco Verde: un passo avanti e due indietro. Come per il campetto di calcio realizzato, tra i primi in Italia e con grande risonanza mediatica, con la gomma riciclata di centinaia di pneumatici raccolti nelle discariche abusive. Dopo l’inaugurazione, avvenuta nel 2016, il Comune avrebbe dovuto garantire gli allacci di acqua ed elettricità. Non l’ha mai fatto, tanto che i vigili urbani ne hanno dichiarato l’inagibilità. I ragazzini ci vanno a giocare lo stesso, abusivamente e a loro rischio e pericolo.
D’altra parte la precarietà è sempre stato il tratto distintivo di questo luogo. Fin dalla sua origine, datata primi anni 80. Il terremoto che sconvolse l’Irpinia fece a Napoli alcune migliaia di senzatetto, nei quartieri popolari dove le case erano antiche e maltenute. Centinaia di famiglie si ritrovarono da un giorno all’altro dentro i container. Una legge varata in fretta e furia stanziò 1.500 miliardi di lire fuori bilancio: al posto dei campi coltivati, in mezza provincia vennero su all’improvviso questi agglomerati costruiti con cemento mischiato alla polvere di amianto, promesse di modernità a buon mercato. A Scisciano il complesso venne battezzato Cisterina, ad Afragola Salicelle, a Boscoreale banalmente Piano Napoli. E a Caivano, appunto, Parco Verde. «Quando arrivammo – ricorda Mazza – i vialoni tra un palazzo e l’altro erano ancora sterrati, in molti appartamenti mancavano gli infissi. Ma era comunque meglio del container. E poi sul contratto c’era scritto che la sistemazione era transitoria». Transitoria, ecco la parola chiave. Una soluzione tampone. Un polo residenziale cui non aggiungere servizi, negozi, strutture sportive, scuole, persino alberi perché, in fondo, non ne valeva la pena. Palazzoni anonimi, in mezzo al nulla. Ma da accontentarsi, da adattarsi, giusto il tempo di riattare le case lesionate.
Di proroga in proroga, il provvisorio è diventato definitivo. Le famiglie, arrivate da San Pietro a Patierno, Secondigliano, Sanità, Fontanelle, si sono “adattate” a modo loro. Quelle con i cognomi “pesanti” – Fucito, Iaccarino, Sautto, Frattino, Ciccarelli – meglio di altre. Spadroneggiavano a Napoli, hanno continuato qui. Armi da nascondere, droga da spacciare. Fiumi di droga. Lavorata nei garage trasformati in laboratori. Divisa in dosi di notte, in quantità industriali, da centinaia di anziani e ragazzini arruolati tra i residenti. Il Parco Verde è diventato negli anni la piazza di spaccio più grande d’Europa. Un viavai continuo di clienti, a tutte le ore, un traffico milionario favorito dal silenzio di tutti. E dalla lontananza delle istituzioni, dall’impotenza delle forze dell’ordine. Soltanto nel luglio di un anno fa, finalmente, a Caivano una Compagnia dei carabinieri ha sostituito la piccola tenenza. I risultati si sono visti subito, i 14 droga shop sono stati smantellati uno dopo l’altro. Piazza pulita? Macché: lo spaccio continua, ma dentro gli appartamenti. I carabinieri intervengono, l’appartamento viene sigillato, lo spaccio si sposta. È il passo del gambero, l’eterno ritorno al punto di partenza.
«Tutti siamo stati in qualche modo collusi», dice ancora l’animatore di “Un’infanzia da vivere”, che ha avuto un fratello morto per overdose. Tutti, anche quelli “puliti”, estranei ai commerci illegali, che restano la maggioranza ma la prepotenza dei camorristi l’hanno subìta e mai denunciata. E soprattutto, ancora una volta, i rappresentanti istituzionali. Gli errori, in quarant’anni, sono stati tanti. A cominciare dalla ostinata determinazione a tenere gli abitanti del Parco lontani e distinti da quelli di Caivano: mai nessuna integrazione è stata tentata, per esempio favorendo uno “scambio” di iscrizioni a scuola. Niente. Nelle scuole del ghetto i bambini del ghetto. Nessun altro modello educativo, per loro, se non quello del contesto intorno a loro. Poco lavoro per i genitori, molta camorra pronta a offrire il suo welfare. Due, tre, quattro generazioni sono cresciute così. Senza uno scivolo o un’altalena, direttamente dal box alla strada. Spesso senza neanche passarci, per la scuola: al Parco Verde la dispersione supera il 20 per cento. E non c’è nessuno che se li va a prendere, i bambini perduti. Nessun assistente sociale, nessuna istituzione. Giusto il parroco e l’ostinato, mai domo Bruno Mazza che ha appena creato una coperativa sociale. «Apriremo un’officina per biciclette, una falegnameria, un laboratorio per impasti di pizza: c’è un’altra vita, fuori di qui. I politici? Si vedono solo per le elezioni. Ora verranno per le Europee e anche per il Comune, che è stato sciolto un’altra volta. Prometteranno qualcosa e poi ciao». Nessuno resti solo, c’è scritto su quel muro. Ma al Parco Verde non ci credono più.