ALESSANDRO BARBERA
Palazzo Madama, ieri. La scena analogica è sempre la stessa: un viavai ininterrotto di faldoni, senatori, contatti con il ministero del Tesoro e funzionari parlamentari su questo o quell’emendamento. A disposizione ci sono appena cento milioni di euro, anche se secondo i calcoli dell’opposizione il governo ne avrebbe già impegnati più della cifra (magra rispetto alla tradizione) decisa dal ministro Giancarlo Giorgetti. Ma la questione che per tutta la giornata impegna la politica è sui tempi: la Finanziaria per il 2024 rischia di arrivare al traguardo alla vigilia di capodanno. Una beffa per Giorgia Meloni e un rischio enorme mentre tratta una difficile mediazione in Europa sul nuovo Patto di Stabilità. Paradosso vuole che il coltello l’abbia in mano l’opposizione (oltre duemila emendamenti), con la maggioranza vincolata alla regola delle zero modifiche. E così, per evitare il peggio il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani e il sottosegretario al Tesoro Federico Freni si attivano per trovare un accordo con Pd e Cinque Stelle, che nel frattempo avevano promesso ostruzionismo in commissione Bilancio. L’accordo arriva all’ora di cena: la manovra sarà in aula per la fiducia al Senato fra il 21 e il 22 dicembre. Se l’agenda di Palazzo Chigi non cambierà, il 21 sarà il giorno della conferenza stampa di fine anno della premier.
Con questo calendario, subito dopo la fiducia di Palazzo Madama il testo passerà alla Camera per una lettura lampo. Secondo le stime che si fanno nel governo, il voto definitivo sarà il 29 o il 30 dicembre, e il rischio dell’esercizio provvisorio sarà evitato. Meloni dovrà fare i conti con i malumori dei deputati, perché a questo punto le poche modifiche della Finanziaria sono quelle già concesse ai senatori. Ma per Palazzo Chigi si tratta di un male minore: è ormai la prassi già sperimentata del bicameralismo quasi paritario, in cui quel che decide un ramo del Parlamento passa all’altro per essere solo ratificato. La Ragioneria dello Stato, ovvero i tecnici incaricati di valutare le coperture di ogni singola richiesta di modifica, quest’anno ha prevenuto le polemiche dell’anno scorso, quando in una sola notte bocciò 44 richieste della maggioranza. «Abbiamo cambiato metodo, stiamo cercando di evitare gli incidenti», dice in una (rara) intervista a Radiocor il numero uno della struttura del Tesoro Biagio Mazzotta.
Qual è la contropartita dell’accordo fra maggioranza e opposizione? L’impegno del governo dovrebbe essere quello di concedere emendamenti per quaranta milioni di euro, pochi spiccioli rispetto alle abitudini del passato e di una legge che vale circa 24 miliardi. Quel che non si riuscirà a finanziare con il treno della Finanziaria, passerà dal decreto Milleproroghe, sempre che il Parlamento abbia il tempo di discuterlo. «Dalla maggioranza non arriverà più alcuna proposta di modifica», spiega una fonte di governo che chiede di non essere citata. Gli appetiti dei parlamentari sono già stati soddisfatti con gli emendamenti dei relatori: dai trecentomila euro per la fondazione dell’ex candidato sindaco di Roma del centrodestra Enrico Michetti ai duecentomila per il museo di Poggioreale del sindaco amico del sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. È già incardinata anche l’unica modifica voluta dal governo dopo il pasticcio del taglio alle pensioni dei dipendenti pubblici, medici e infermieri che hanno iniziato a pagare i contributi prima del 1996. Chi ha maturato i requisiti per la vecchiaia potrà andare a riposo senza tagli, gli altri avranno un décalage che si azzererà per chi accetterà la pensione con 45 anni di contributi versati. Restano aperti il problema degli esodati del Superbonus edilizio (su cui però il Tesoro pare irremovibile) e le richieste dell’opposizione. Nel frattempo la Camera ha dato il via libera definitivo al decreto “Anticipi” che concede gli aumenti anti-inflazione a pensionati e dipendenti pubblici: sono stati concessi più fondi per il bonus psicologo e la proroga dello smart working per chi ha figli under 14.