Come è noto, la scarsità dei giovani rispetto agli anziani mette a rischio un sistema pensionistico basato sul fatto che sono i lavoratori in attività che tramite i loro contributi finanziano le pensioni degli attuali pensionati, come questi hanno fatto a loro volta per coloro che li avevano preceduti. La discontinuità lavorativa e la diffusione del lavoro povero, mentre accentua quel rischio, vi aggiunge anche, per le generazioni più giovani, quello dell’insufficiente accumulo di un credito pensionistico da riscuotere una volta diventati anziani. Anche se acquisissero una auspicabile competenza finanziaria maggiore di quella posseduta dalla maggior parte di loro, in modo da valutare meglio le opportunità di investimento, assicurative e di risparmio, per molti di loro servirebbe a poco, visto che i loro guadagni sono troppo poveri e discontinui per consentire piani di risparmio e di assicurazione integrativa, a meno che non abbiano genitori e/o nonni che abbiano il desiderio, e la disponibilità, di farlo per loro. Una forma di lunga dipendenza familiare che è uno dei fattori di cristallizzazione intergenerazionale delle diseguaglianze in Italia. Ovviamente occorre migliorare le condizioni sia contrattuali sia salariali per ridurre se non eliminare il lavoro povero e consentire l’accumulo di contributi sufficienti a garantire una pensione decente a chi ha lavorato per molti anni.
Ma è forse giunto il tempo di pensare, se non a un reddito di base per tutti, ad una pensione di base universale per chi, lavoratore/lavoratrice o meno, raggiunge l’età della pensione: uno zoccolo minimo cui aggiungere l’eventuale pensione lavorativa basata sui contributi e quella integrativa, se si è riusciti a stipularla. In alcuni paesi europei, ad esempio in Danimarca e Olanda un sistema simile è già in vigore da tempo. In Italia se ne discusse come una possibilità già in piena epoca fordista, negli Anni Sessanta, quando iniziarono ad entrare in età pensionistica coorti di uomini e donne, che pur avendo lavorato per buona parte della vita, non avevano accumulato contributi sufficienti neppure per la pensione minima o la pensione integrata al minimo. Alla fine si preferì introdurre una pensione assistenziale, legata a limiti (molto bassi) di reddito: la pensione sociale, oggi assegno sociale. Oggi la situazione è diversa. Non si tratta più di far fronte, nella transizione ad un mercato del lavoro più regolato e nella prospettiva di uno sviluppo continuo, alle necessità di generazioni, specie femminili, che avevano lavorato in una economia e in un mercato del lavoro spesso caratterizzati da alti tassi di informalità. Si tratta di costruire un sistema adeguato ad un mercato del lavoro sempre più orientato alla flessibilità, con gli annessi costi in termini di discontinuità lavorativa e quindi anche contributiva. Una discontinuità che non può essere corretta solo alzando l’età in cui si può andare in pensione.