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8 Agosto 2022Oltre la recensione Marco Tullio Giordana commenta la potenza dell’opera. Del collega dice: «È un artista, non un giudice : vuole solamente toccare il cuore». E confessa: «Mi ha liberato dall’ossessione di realizzare una pellicola su quella stagione»
di Marco Tullio Giordana
Un grande regista ha visto Esterno notte: film coraggioso e profondo sul caso Moro
Questa non è ovviamente una recensione ma una specie di diario scaturito dalla visione del film di Bellocchio sull’ affaire Moro, incubo che grava su di noi da più di quarant’anni e dal quale finora nessuno è riuscito a svegliarci. Vi riesce invece, finalmente, il regista piacentino con la sua opera numero quaranta (senza distinguere fra film, documentari e serie televisive), culmine di una strada che per sua e nostra fortuna continua a essere feconda e conturbante. Come il suo film d’esordio, quei Pugni in tasca che nel 1965 fecero gridare al miracolo e dichiarare a Mario Soldati: «Signori del cinema italiano: habemus pontificem!», Bellocchio insieme all’altro dioscuro Bernardo Bertolucci, suo coetaneo e conterraneo, ha degnamente raccolto l’eredità dei maestri che negli Anni 60 erano in piena attività, quei De Sica, Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Rosi, Germi, Pasolini, per non dire di tanti altri che hanno coperto di gloria il cinema italiano nel mondo e dei quali non è facile essere all’altezza.
Dopo il ventennio in bianco e nero, con film anche molto ben fatti ma reticenti ed evasivi nel descrivere un Paese che il regime fascista pretendeva edulcorato e rassicurante, la fioritura neorealista del dopoguerra fu libera di raccontare le nostre magagne e lavare i panni sporchi, con buona pace del sottosegretario Andreotti (che predicava male ma razzolava bene, visto che fu poi l’unico a preoccuparsi di difendere l’industria cinematografica nazionale tassando i film americani doppiati). Da lì la volontà di catturare la nostra storia ha sempre fatto parte del corredo genetico del cinema italiano o di buona parte dei suoi autori, Dna che mai fu abbandonato nemmeno nei momenti bui e incomprensibili. Uno di questi, il caso Moro.
Una cosa bisogna dirla: non toccherebbe al cinema fare luce. Tocca semmai agli investigatori, ai magistrati, al giornalismo d’inchiesta e infine agli studiosi, agli storici, agli intellettuali. Da ultimi arriviamo noi, con strumenti che sembrano scientifici ma non lo sono. Opera di manipolazione suprema (nessuna inquadratura è lì per caso, tutto nel cinema è preordinato e costruito a tavolino, privo perciò di qualsiasi innocenza) un film maneggia le informazioni a disposizione di tutti e cerca di trasformarle in azione, in comportamenti di personaggi, in parole (che spesso nascondono anziché rivelare) e dunque tutto vi è giocato di sponda, come in una partita di biliardo o di boccette. Impossibile che possa esplorare la verità e spaccare il capello in quattro, non ha le dimensioni e nemmeno l’ambizione di farlo perché la sua scommessa è restituirci il sentimento del tempo, per quanto remoto e inattuale. Sul caso Moro è stato detto tutto, non sempre disinteressatamente. I cultori della materia (io lo sono, per questo Esterno notte mi ha liberato dal male di pensare ossessivamente di raccontarlo in un film) hanno a disposizione non solo la sterminata pubblicistica degli studiosi, ma milioni di altre pagine archiviate dai cinque processi, oltre che dalle due commissioni bicamerali che se ne sono occupate (alle quali si aggiungono di striscio le tre su Terrorismo, P2 e caso Mitrokhin). Incrociando tutti questi elementi si incappa continuamente in palesi contraddizioni. Non solo da parte degli ex-terroristi coinvolti (che almeno hanno l’attenuante di voler alleggerire per legittima autodifesa la propria posizione), ma anche da parte di vari organi dello Stato dai quali riesce impossibile ottenere una versione univoca e risolutiva, autorizzando il malevolo sospetto che il «romanzo» del caso Moro, o meglio l’affresco, sia stato dipinto a più mani conniventi per dare, ognuna al suo popolo, la versione che scagiona idealmente tutti. Gli ex-terroristi per aver combattuto la guerra santa e persa, le autorità per aver fatto il loro dovere, sconfitti anch’essi come eroi di un torneo cavalleresco dove alla fine tutto è perduto fuorché l’onore.
Esterno notte è l’affresco opposto. Le mani che lo dipingono sono quelle nevrili di un artista che non si investe del ruolo del giudice o dello storico (dunque la precisione da orafo o miniaturista non è la sua preoccupazione) ma vuole soltanto rappresentare e toccare il cuore. Anche se basato abbastanza rigidamente sui fatti — e chiunque ricordi le immagini dei telegiornali di quei giorni sarà stupefatto dalle ricostruzioni di Bellocchio e dei suoi collaboratori — il film si prende molte libertà e sceglie la strada coraggiosa di scandagliare alcuni personaggi sprofondando nella loro anima e lasciando sullo sfondo o addirittura trascurandone molti altri. Cosa che mai sarebbe stata possibile se non fosse stato obbedito, affiancato, sostenuto, da una squadra di superbi attori quali raramente capita di vedere tutti assieme, assemblati e intonati come in un’orchestra composta da solisti sensazionali. Vorrei citarli anche perché molti li considero miei fratelli di sangue: Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, Fausto Russo Alesi in quelli del ciclotimico Francesco Cossiga, Toni Servillo come dolente autolesivo papa Paolo VI, Daniela Marra come inquieta Adriana Faranda, Margherita Buy come rabbiosa umanissima Eleonora Moro ferita a morte. Senza dire del regale contorno di Paolo Pierobon (monsignor Cesare Curioni), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Fabrizio Contri (Giulio Andreotti), Pier Giorgio Bellocchio, Antonio Piovanelli, Gigio Alberti, Lorenzo Lavia, Bebo Storti, e mi scuso di citare solo questi perché tutti quanti compongono davvero un parterre de rois.
Dico subito che non mi importa nulla che Bellocchio racconti, soprattutto nel capitolo della spietata esecuzione, una versione per così dire «ufficiale». Non entrerò qui nel merito, che richiederebbe studio a parte lungo e cospicuo, ma vado al dunque dei sentimenti che genera. La profonda compassione per la vittima, quel Moro «acciambellato nella sconcia stiva» come scrisse il poeta Mario Luzi, e anche per i suoi miserrimi carnefici, ottenebrati e resi ottusi dal loro stesso successo militare, incapaci di valutare quale disorientante vittoria sarebbe stata la liberazione di Moro che tutti invocavano, perfino nell’area che li sosteneva. Bellocchio aveva immaginato questa dirompente soluzione a suggello del suo film del 2003 Buongiorno notte come sogno o speranza di una terrorista che capisce come solo la pietà possa risolvere la sua crisi. Gli diedero sulla voce tutti, incapaci di capire il valore distopico di quell’immagine.
Sono sicuro che anche per Esterno notte gli toccherà sopportare l’anatema degli specialisti oltre alle lamentele dei tenori del Sessantotto che, pur avendo abiurato o considerata superata quella fase violenta, si seccheranno a vedersi rappresentati come velleitarie mosche cocchiere. Contrariamente all’abitudine italiana di andare in controversia e adire la via legale (sempre per «dare in beneficenza» il ricavato!), questo film non soffia sulle braci, non intende provocare, non cerca grane per farsi pubblicità. Bellocchio rinuncia qui perfino al suo stile voluttuoso per cercare invece la forza dei piani stretti, «la morte al lavoro sul volto degli attori» come avrebbe detto Cocteau, la sua macchina da presa si avvicina in asse ai propri personaggi spesso cambiando solo obiettivo anziché danzare con carrelli e dolly e droni come usa adesso. E davvero questo film dimostra come la Storia maiuscola non sia che un’antropofaga divoratrice e solo quella minuscola, rappresentata delle nostre piccole passioni, dall’amore, dalla tenerezza, dal dolore, dalla paura, renda possibile sopportare, almeno per il poco tempo che ci tocca, il nostro destino di perdenti sotto ogni cielo.