Cronenberg e Tarantino cioè il cinema
5 Gennaio 2025Troppo ricca questa arte povera
5 Gennaio 2025Quando l’anziano Giovan Lorenzo Bernini arrivò in Francia, nel giugno del 1665, si stava consumando l’ultimo atto di una tesa trattativa tra il sovrano francese, il quasi onnipotente Luigi XIV, e il papa Alessandro VII Chigi. L’artista, allora settantenne, era riluttante: non avrebbe voluto sobbarcarsi quel lungo viaggio, senza parlare poi del dover prestate i propri servigi a quel giovane re. I mesi che trascorse nella capitale francese (fino ottobre) si mutarono in una sorta di disfatta artistica. I progetti approntati per la nuova facciata del Louvre rimasero sulla carta, troppo italianizzanti per quella corte che voleva imporre un linguaggio nuovo, slegato dai fasti romani. Solamente il grandioso busto di Luigi XIV, oggi a Versailles, avrebbe suscitato una certa curiosità tra i membri della corte, che ammiravano la capacità di Bernini di infondere vita al duro marmo.
Quella in cui lo scultore italiano si trovò, suo malgrado, immerso era una situazione complessa, politicamente tesa, artisticamente ambivalente. Se da un lato, infatti, la corte francese guardava con crescente distacco alla corte papale di Roma, è pur vero che proprio il modello dei fasti barberiniani dovette avere una certa presa sull’immaginario dei funzionari d’oltralpe, primo su tutti Jean-Baptiste Colbert, plenipotenziario ministro che avrebbe ridisegnato l’assetto culturale (e visivo) della Parigi del Grand Siècle.
Quello del legame, mai univoco, mai esente da frizioni, tensioni e rovesciamenti, delle corti europee con i modelli artistici italiani è un tema di grande rilevanza per comprendere quali furono le dinamiche che diedero vita a linguaggi formali peculiari e rappresentativi. Con una scelta precisa, il libro di Alessandro Angelini Arte di corte nell’Europa del Seicento Velázquez, Bernini, Poussin (Carocci, pp. 303, 62 illustrazioni a colori, € 34,00) attraversa alcuni dei momenti fondativi delle vicende artistiche del XVII secolo. Come indica il sottotitolo, il fuoco dei ragionamenti si muove attorno a tre sommi artisti. Ma, si sa, mai giudicare un libro (solo) dal titolo. Il testo infatti permette di ritessere quelle vicende che, a partire per lo meno dal lungo soggiorno di Peter Paul Rubens in Italia (1600-’08), cui è dedicato il capitolo iniziale, segnarono un mutamento tanto nello stile che nelle predilezioni formali degli artisti europei.
Al centro sta il discorso delle corti, quella romana del Papa, quella parigina, e quella di Madrid. La corte, dunque, come un campo di forze che intrattiene con le arti un rapporto duplice, a volte difficile, assai spesso ambivalente. Nello specifico, corti che avevano eletto l’arte italiana del maturo Cinquecento a modello di riferimento per la costruzione di una legittimità culturale del potere e che di volta in volta non rinunciarono ad appropriarsi e a piegare quei linguaggi alle esigenze di magnificenza e di comunicazione politica più propria ai diversi contesti.
Così il confronto con l’arte italiana, serrato e partecipe, di Velázquez, che salpò alla volta della Penisola per ben due volte – prima, da giovane, nel 1630, e poi per un più lungo soggiorno tra 1648 e 1651 – costituisce il lievito sul quale innestare nuove sperimentazioni formali, grazie alle quali egli sarebbe divenuto il più importante pittore alla corte di Filippo IV. Il caso dell’artista spagnolo permette di cogliere quelle direttrici che, mutatis mutandis, costituiranno anche parte del percorso del collega francese Nicolas Poussin. Se il Sevillano fece sempre ritorno alla ‘sua’ corte madrileña, il normanno, invece, scelse di fuggire dal paese natio per stabilirsi a Roma e da lì operare per un ristretto gruppo di intellettuali e amici. A legare le loro esperienze è proprio quel continuo, fruttuoso dialogo con i modelli artistici italiani, che di volta in volta fu in grado di aprire nuove vie espressive. Senza la pittura di storia di Poussin sarebbero impensabili gli sviluppi dell’arte francese. Proprio le scelte di stile maturate nel costante confronto con l’Urbe sarebbero state fissate dall’Académie Royale (fondata nel 1648) come punto di confronto e modello.
Se l’Italia per Velázquez e Poussin fu una terra ideale, capace di imprimere un mutamento radicale e profondo nelle loro scelte formali, per Bernini certo il discorso è in parte differente e rovesciato di segno, caratterizzato come fu dall’insuccesso. Ma anche dalla tensione che si determinò negli avanzati anni sessanta del Seicento, quando Colbert, di fatto, rifiutò lo stile di Bernini, e quindi predilesse per i nuovi edifici uno stile in tutto e per tutto ‘francese’, è possibile cogliere l’affiorare di dinamiche storiche e culturali che avrebbero segnato i secoli a seguire.
Nel corso delle pagine i dati storici, politici e culturali sono sempre tenuti ben presenti, e aiutano a rendere la mappa che Angelini disegna nitida e circostanziata. Senza seguire le disastrose relazioni tra la Francia di Mazzarino e la Sede Apostolica, arrivate quasi all’orlo di una guerra aperta, non sarebbe possibile cogliere tutte le implicazioni della ‘chiamata’ di Bernini alla corte del Re Sole. O, ancora, si leggano le belle pagine sul mecenatismo di Maria de’ Medici e sulla svolta, cruciale, che di fatto segnò un cambiamento nel gusto della corte francese, dove arrivarono opere e artisti italiani e che fu una premessa per il successivo mecenatismo artistico – seppur di segno diverso – dell’età di Richelieu e di Mazzarino.
Proprio la capacità di restituire la complessità dei momenti storici e il loro ricasco sulle scelte di artisti e committenti è uno dei pregi del volume. Questo di Angelini è anche un libro che dialoga con alcuni grandi classici della storiografia artistica novecentesca, dal libro di Giuliano Briganti su Pietro da Cortona a quello di Richard Krautheimer sulla Roma di Alessandro VII, dal Poussin di Anthony Blunt al Velázquez. Painter and courtier di Jonathan Brown, per citare solo alcuni titoli e studiosi che esplicitamente sono indicati come punti di riferimento. Facendo tesoro dei risultati di queste grandi imprese storiografiche, l’autore offre spesso anche uno sguardo aggiornato rispetto ad alcuni temi e vicende puntuali.
Nell’insieme è un Seicento, quello che emerge dalle pagine del libro, che non si identifica più in modo onnicomprensivo con l’etichetta di Barocco. Evitando accuratamente, com’è spiegato nella premessa, termini ampi e categorizzanti, Angelini disegna una carta delle arti europee che è ricca e sfaccettata, che si àncora alle vicende storiche. Il fil rouge che si dipana di capitolo in capitolo permette, alla fine, di avere un’idea precisa e aggiornata di quali dinamiche coinvolsero (e travolsero) gli artisti e le loro opere in un’epoca di grande fermento culturale.
È anche un saggio che fa emergere un discorso sulle arti che si dipana in continuità rispetto alle vicende del secolo precedente. Mantenendo sempre al centro del discorso lo sguardo sulle opere e sullo stile degli artisti, il libro offre un viatico all’arte del Seicento che, complice anche la felicità della scrittura, permette di seguire i modi attraverso cui questi sommi artisti segnarono non solo la loro epoca, ma anche la nostra.