Una voce, quella del mondo arabo, che Pechino ha sempre più interesse ad ascoltare, come dimostrato dalla crescente attività diplomatica della Repubblica popolare in Medio oriente. A partire dal riavvicinamento tra Teheran e Riad, avvenuto lo scorso marzo proprio grazie alla mediazione cinese, così come l’ingresso di Iran, Arabia saudita ed Emirati arabi nei BRICS allargati ad agosto. Se sulla questione israelo-palestinese Pechino sostiene la soluzione “dei due Stati” e ha provato a presentarsi come potenza neutrale prima ospitando il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen a Pechino lo scorso febbraio e invitando poco dopo il premier israeliano Benjamin Netanyahu, i veri interlocutori di Pechino sembrano essere i Paesi terzi che gravitano attorno al conflitto.
Con la prima, Pechino nel 2021 contava un interscambio da 87,3 miliardi di dollari e i due Paesi collaborano nei rispettivi progetti di investimento, la “Vision 2030” saudita e la “Belt and Road initiative” cinese. Anche sul fronte diplomatico, il rapporto con Riad è stato suggellato dalla visita del presidente cinese Xi Jinping in Arabia saudita lo scorso dicembre, momento nel quale i due Paesi hanno firmato 34 accordi commerciali per un valore stimato di 29,26 miliardi di dollari. Tra i settori di collaborazione compaiono transizione energetica, tecnologia, infrastrutture e industria militare e una collaborazione con Huawei per lo sviluppo di soluzioni digitali per le città saudite.
Con l’Iran invece la Repubblica popolare cinese conta una comune opposizione agli Stati Uniti e il presidente Ebrahim Raisi ha più volte sottolineato che Pechino e Teheran sono “amici in situazioni difficili” a causa delle ostilità statunitensi. Nel 2022 il commercio bilaterale tra i due Paesi contava un fatturato da oltre 16 miliardi di dollari, complice l’acquisto cinese di petrolio iraniano anche dopo le sanzioni imposte da Washington nel 2018. L’interesse in Medio oriente è dunque duplice. Da una parte Pechino prova a diversificare le proprie forniture energetiche, dall’altra rimarca l’opposizione agli Stati Uniti con un obiettivo comune: capitalizzare sulla frustrazione del mondo arabo nei confronti di Washington per consolidare i propri interessi economici nella regione. Così si giustifica la sempre meno apologetica critica a Israele, dipinto dai media statali in Cina come ennesima vittima degli Stati Uniti guerrafondai, mentre per bocca di Wang Yi la Cina parla di “pace” e “giustizia” per la Palestina.