La mano destra del David, il fazzoletto di Lorenzo, la guancia di Bacco, l’anatomia della Notte: il viaggio alla scoperta delle sculture esposte tra Bargello, Sagrestia Nuova e Accademia svela la profonda complessità intellettuale dell’artista
di Sergio Risaliti
Siamo decisamente fortunati. La più alta concentrazione di sculture di Michelangelo si trova a Firenze. Basterebbe fermarsi a quel triangolo cittadino che tocca il Museo Nazionale del Bargello, la Sagrestia Nuova in San Lorenzo e la Galleria dell’Accademia. Un patrimonio di cui forse non abbiamo contezza e che non basta una vita per conoscere in profondità. E allora proviamo a salire queste vette godendoci alcuni dettagli che nella fretta potrebbero sfuggire ai più. Iniziamo dal Bargello, tempio della scultura rinascimentale fiorentina, dove si incontra il Bacco con Satiro, realizzato da Michelangelo per il Cardinale Raffaele Riario a Roma intorno al 1496- 97. La storia di questa scultura è molto complessa, perfino intricata. Basti ricordare che Riario fu implicato in ben due congiure contro i Medici, quella del 1478 ordita dai Pazzi per far fuori Lorenzo il Magnifico e Giuliano de’ Medici ( che ne rimase vittima), e quella tentata contro Leone X nel 1517. Sorvoliamo sulla posa dell’atletico dio del vino, sul Satiro che assapora un grappolo di uva, immagine di vita peccaminosa, sulla pelle di pantera, che simboleggia la morte spirituale e sulla posa della mano sinistra di Dioniso che indica in basso, in un gesto contrapposto a quello della mano destra che regge la coppa innalzata verso il cielo. E non attardiamoci a contemplare il fondo schiena di ineguagliabile carnosità ed erotica bellezza. Ci interessa altro. Cosa ci fa un neo o porro sulla guancia destra di Bacco? E’ forse un piccolo difetto scolpito per aggiungere qualcosa in più alla bellezza già perfetta di quel volto? Un vezzo di puro estetismo, la prova di abilità data dal giovane scultore, astro vincente nel sistema dell’arte dell’epoca? E cosa ci fanno un paio di piccoli corni nascosti sulla fronte di Bacco- Dioniso, tra i riccioli, le foglioline e i grappoli di uva che adornano la sua chioma. La risposta si trova nei testi antichi, nelle Baccanti di Euripide, dove Dioniso è ‘un dio dalle corna di toro’ e nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, tornate di moda a Firenze alla fine del Quattrocento, dove si evoca la natura taurina del figlio di Giove e di Semele, Quelle corna sono state però amputate. Da chi e perché? Le ipotesi possono essere più di una.
Si è trattato di un pentimento artistico? Si è forse voluto accentuare il carattere antiquario della statua? Oppure ha dato fastidio il lato demoniaco di quella pagana divinità?
Il Bargello custodisce anche il Tondo Pitti ( 1502- 1504), un bassorilievo, in parte incompiuto, che rappresenta la Madonna con Gesù Bambino e San Giovannino, eseguito per Bartolomeo Pitti al tempo in cui Michelangelo terminava il David. La figura della Madonna costretta nei confini di un tondo è già in linea con il linguaggio figurativo che Michelangelo adotterà per risolvere molti dei problemi visivi e prospettici per il Tondo Doni e sulla volta della Sistina. I vertici figurativi sono il volto della Vergine, che è incarnazione di una spiritualità cristiana impregnata di etica classica, e il corpo del Gesù bambino che fuori di quella scena potrebbe già appartenere a un lottatore adulto. Entrambi conoscono il proprio destino; ne sono la cifra simbolica il sapienziale cherubino sulla fronte di Maria e il libro aperto su cui posa lo sguardo il Figlioletto.
Una terza opera di Michelangelo al Museo del Bargello è il David- Apollo, risalente al 1530-32, scolpito per Baccio Valori e poi passato nella collezione di Cosimo I. Questa figura è uno dei più espliciti risultati di “ non finito”. L’incompiutezza non permette ancora oggi di identificare con certezza il soggetto. Giorgio Vasari ha descritto questo capolavoro come un Apollo nell’atto di prendere una freccia dalla faretra, mentre nell’inventario di Cosimo I del 1553 è ricordata come un David. Altre fonti dicono che Michelangelo abbia virato in corso d’opera, trasformando il re d’Israele nel dio delle arti. La figura è bellissima all’ennesima potenza, e girandole intorno non si distingue più tra maschile efemminile. Ai piedi una sfera potrebbe essere stata all’origine del misunderstanding. Cos’è? Una testa? Forse è quella di Golia? Oppure è il sole che identificherebbe Apollo? E quella torsione del corpo, cosa significa? Malinconia o quiete, coscienza diurna o notturna, ascesa o caduta, reminiscenza o rapimento? Chissà cosa frullava in mente a Michelangelo. Serve girare intorno per sciogliere il dilemma. In posizione un po’ defilata ritroviamo il piccolo crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo, oggetto di aspre polemiche, perfino di inchieste giudiziarie. Sfido a trovare un artista anonimo in grado di raffigurare un corpo così androgino per una crocifissione; la querelle resta aperta. Restiamo al Bargello. Ecco il Bruto, realizzato nel 1538- 39 quando Michelangelo aveva ormai abbandonato la sua patria per Roma dove sarebbe rimasto fino alla morte avvenuta nel febbraio del 1564. L’opera venne suggerita all’artista da Donato Giannotti per farne un dono al Cardinale Niccolò Ridolfi, entrambi facevano parte del gruppo dei fuoriusciti repubblicani, quelli malvisti da Cosimo I. Forse si trattava di un progetto nato per celebrare Lorenzino de’ Medici, il Bruto toscano, che aveva pugnalato a morte il duca Alessandro de’ Medici. Quello che voleva far fuori Michelangelo quando i Medici erano rientrati a Firenze nel 1530, dopo aver sconfitto la Repubblica. L’artista era sulla lista dei nemici da eliminare. Fu per questo che si nascose nella famosa stanza segreta, quella sotto il pavimento della Cappella Medicea, dove si conservano dei disegni a carboncino sulle pareti, molti dei quali di mano di Michelangelo. Tuttavia c’è ancora molta incertezza tra gli eruditi sull’attribuzione, quali si e quali no. Più che un rifugio sembra una grotta, una grotta di Altamira rinascimentale. Ma risaliamo sopra, ad ammirare i sepolcri dei due ‘ capitani’, Lorenzo duca d’Urbino e Giuliano duca di Nemours. Un dettaglio ha impegnato gli esegeti. Lorenzo si porta alle narici un fazzoletto, forse imbevuto di qualche profumo per difendersi dal puzzo della morte. La posa è quella del malinconico o pensieroso. Al silenzio della morte fanno riferimento il gesto del dito a serrare le labbra e il pipistrello scolpito sulla cassetta degli oboli alla quale Lorenzo si appoggia col gomito. In quella di Giuliano ci sono cose divine, come scrisse il Vasari: la corazza in cuoio aderentissimo sulla muscolatura, i calzari, poi le ginocchia, i capelli e la gola, le mani, gli occhi e le labbra. Dietro la schiena non visibile un mascherone come quello sul davanti. Ai piedi di queste figure eroiche, Michelangelo ha voluto rappresentare lo scorrere inevitabile del tempo e la fine di ogni velleità e ambizione umana. In primis quella dei re e dei principi, insomma dei potenti della terra. Michelangelo ci ha lavorato per anni, dal 1520 fino al 1534, quando parti definitivamente per Roma, e molte delle sculture rimasero per terra. Ci pensò poi il Vasari a sistemarle. Ci sono il Giorno e la Notte, l’Aurora e il Crepuscolo. Una scultura è più bella dell’altra. La Notte è la più fotografata, forse per la sua struggente, malinconica bellezza. Ci sono dei particolare simbolici esaltanti per chi si interessa di rebus iconografici. I fiori di papavero soporiferi, il diadema con la falce di luna crescente e la stella, la maschera ( sogno, incubo, sensualità) e la civetta o barbagianni, animale notturno. I seni della Notte, fin troppo divergenti, hanno perfino attirato l’interesse dei medici, che hanno ravvisato in quello sinistro una grave patologia. La possente figura del Giorno, la cui massiccia corporatura del dorso fa immediatamente pensare al Torso delBelvedere, ricorda nelle fattezze del volto roccioso, incorniciato dalla pietra ruvida e non finita, uno dei Prigioni, quello denominato Schiavo barbuto.
Siamo così entrati nella Galleria dell’Accademia, dove dalla fine dell’Ottocento si è allestita l’esperienza romantica più affascinate della storia museologica. Un allestimento sublime degno di un grande regista di opera che ha voluto far spiccare il David sul fondo degli ambienti, contrapponendo quel nudo classicheggiante all’informe divincolarsi dei Prigioni, tra pietra inanimata e una perfezione che è tanto fisica quanto spirituale. Nella schiera di questi atletici Prigioni si confonde anche il San Matteo, commissionato dall’Opera del Duomo nel 1503 ma iniziato nel 1504, e mai portato a termine. Qui come in altri casi il non finito ha generato interpretazioni filosofiche e teologiche ardite. Ma l’Atlante è quello che si fa notare ai più. La figura è ridotta a un groppo di masse muscolari possenti che sembrano sopportare una montagna, o forse quell’essere ancora informe cerca solo di liberasi dallasoverchiante pietra con uno sforzo titanico. Sovente si è associato a questo marmo il celebre sonetto di Michelangelo che spiega il suo metodo di lavoro: “ Non ha l’ottimo artista alcun concetto/ c’un marmo solo in sé non circoscriva/ col suo sapere, e solo a quello arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto”. Come attratti da un buco bianco, un centro di concentrazione quantica incommensurabile, volgiamo la sguardo verso il David. E pensare che sarebbe dovuto finire su uno degli sproni della Cattedrale e non in piazza, laddove lo volle il Gonfaloniere Soderini, magari d’accordo con Michelangelo. Pochi raccontano la vera storia di questo immenso capolavoro. Di come sia nata, creatura meravigliosa, dalla crisalide precedentemente scolpita da Agostino di Duccio. Eh si! Esisteva un altro David sotto quello che vediamo oggi. Tutto vestito, con la testa di Golia ai piedi, con lo sguardo già voltato verso sinistra e un mantello gettato dietro la spalla mancina. Bisognerebbe raccontarla bene questa storia. Di come Michelangelo abbia spogliato fino al nudo integrale il primo David. E perché abbia tolto la testa mostruosa dai piedi. E cosa sia quell’oggetto impugnato nella mano destra. Magari l’impugnatura di un corno o della fionda, che in antico esisteva di due tipi. Uno di questi era il fustibalo usato come bastone dai pastori e come arma dai soldati. E David, prima di abbattere il Filisteo e diventare re, era un umile pastorello dal cuore puro, come ci dicono le pupille a forma di cuore.
L’autore è direttore del Museo Novecento