C’E.R.A. UNA VOLTA
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Studiando in maniera approfondita il Palazzo Bourbon del Monte, sono rimasto colpito per il “fuori scala” e il suo inserimento territoriale e culturale, in una logica tutta particolare. Intanto, come considerazione preliminare, occorre osservare che il Palazzo del Marchese non è mai appartenuto alla collettività pianese: prima con l’aristocrazia e poi nel dopoguerra, per l’uso abitativo di alcuni privati. Si era aperta una finestra, per renderlo pubblico, tra il 1951 e il 1953, ma non è stata sfruttata dal Comune e dal sindaco dell’epoca, nonostante che sia la Soprintendenza e il Ministero spingessero per realizzarci la sede del Comune. Il mancato acquisto da parte del Pubblico ha bloccato tutte le autorizzazioni edilizie a favore dei privati acquirenti, determinando di fatto il totale abuso delle opere che si sono realizzate fino al 1989, anno in cui il complesso è stato dichiarato inagibile. Ma perché questo palazzo ridisegna in modo nuovo la dimensione politica e culturale dell’edificio insieme a quella del paese? Piancastagnaio è stato un marchesato concesso da Cosimo I ai Bourbon del Monte, ai confini dello Stato Pontificio. E guarda il caso le presenze dello stile manieristico proprie dell’organismo architettonico in oggetto si ritrovano ad esempio a Vivo d’Orcia, Sovana, Santa Fiora, Castell’azzara: tutta la parte proprio ai margini del Granducato dei Medici, a partire dalla Sforzesca. Ma a chi si deve il lavoro di definizione dello stile così diffuso nel territorio amiatino? Oltre ai Sangallo, con molta probabilità a Simone Della Porta, allievo del Vignola, formatosi sul trattato di quest’ultimo, “La regola”. I riferimenti all’ordine, ai rapporti numerici, alla leggerezza e alla sobrietà tipica dei lavori di Vitruvio, come di Leon Battista Alberti, sono chiari. Siamo prima della costruzione del Palazzo (1602), ma l’austerità come la sobrietà piacevano così tanto nella definizione del potere ai Bourbon del Monte, che furono utilizzati anche quando il gusto dell’epoca stava cambiando. Soprattutto piacevano al cardinale Francesco Maria del Monte, grande collezionista e protettore delle arti e delle scienze nella sua sede romana di Palazzo Madama; eppure, lo stile di cui lui stesso, con una certa contraddizione, si fece successivamente paladino fu il barocco di Caravaggio e Rubens, che cambiava i caratteri estetici e apriva ad una nuova rappresentazione del potere: tende a leggere l’organismo per parti autonome, rimanendo indifferente alla visione organica. In ogni caso, la scuola del Vignola non si trova solo dalle parti amiatine, visto che estende di molto il raggio di azione: basti pensare a Palazzo Farnese a Caprarola o a Piacenza, Palazzo Borghese o Villa Giulia a Roma, solo per citare solo alcuni esempi.
Insomma, il Palazzo del Marchese ha una sua centralità, che non rimane solo ed esclusivamente ai confini più o meno larghi del marchesato (o di Piancastagnaio): va oltre e rispecchia una cultura, quella michelangiolesca, che è stata dominante per diversi decenni. Insieme all’architettura, alle opere d’arte e alle armature che conteneva, non è possibile non aprire una riflessione sullo spirito di un’epoca, con i suoi risvolti nella concezione e gestione del potere (Giorgio Agamben). E finiamo, citandoli, gli autori delle opere che erano conservate nell’edificio pianese e che nel 1739 furono trasferite a Firenze: Allori, Del Sarto, Bellini, Caravaggio, Carracci, Cigoli, Lippi, Poussin, Rubens, Reni, Tintoretto, Vasari. Poi, per dire, l’armatura del primo marchese Battistone, insieme alle armi, è finita al Metropolitan Museum di New York.
E’ arrivato il momento che si lavori al fine che i pianesi riprendano possesso della loro storia, che si costruisca un luogo d’identità non solo per gli aspetti qui sopra descritti attraverso uno strumento come un Museo civico, a patto che sia dinamico e moderno. Insomma, un centro di attività capace di essere altresì un volano per il recupero del centro storico di Piano.