Risorse all’osso, norme vecchie e un arrovellamento della burocrazia. I grandi «passi avanti» per la salute dei cittadini rivendicati dalla premier Giorgia Meloni dopo che il dl Liste d’attesa è diventato legge sono in realtà dei battements, per usare una metafora di danza, utili giusto al riscaldamento. Tra le novità sbandierate e i frutti che secondo il ministro Orazio Schillaci si vedranno dall’autunno c’è di mezzo la realtà.
Il nodo delle risorse
Nei sette articoli del nuovo provvedimento si parla di copertura finanziaria solo in tre punti e nessuno è il cuore: l’implementazione dei servizi di salute mentale all’interno però dei limiti di spesa già previsti nel Programma nazionale equità nella salute 2021-2027, la farraginosa macchina degli organismi di controllo delle Asl e la riduzione della tassazione per i medici che fanno gli straordinari. Non c’è traccia di un euro invece per l’assunzione di personale o l’acquisto di nuove strumentazioni. Eppure già l’11 luglio, in una lettera al governo, le Regioni lamentavano l’inefficacia del provvedimento per abbattere le liste d’attesa: «Un decreto non può raggiungere questo risultato in assenza di adeguate risorse finanziarie, delle necessarie risorse umane, senza l’implementazione di misure che possano affrontare il problema per quanto concerne sia l’offerta che la domanda di prestazioni che deve essere appropriata. Nessun Paese europeo ha affrontato la problematica così». Anche Schillaci ha ammesso: «Parlerò con Giorgetti, in autunno servirà una manovra».
Visite ed esami dai privati
La misura più importante è il cosiddetto “Salta fila” che dovrebbe garantire visite ed esami entro le scadenze previste dalla legge, ponendo fine allo scandalo di attendere un anno e mezzo per un’ecografia all’addome. Se al momento della prenotazione non c’è posto in ospedale entro i tempi stabiliti, l’Asl dovrà assicurare la prestazione in una struttura privata accreditata oppure dentro l’ospedale ricorrendo alla libera professione dei medici. Tralasciando le accuse dell’opposizione di privatizzazione graduale ma inesorabile del sistema sanitario pubblico, c’è un enorme però: le risorse, appunto. Lo scorso anno ad abbattere le liste era stata assegnata una quota del finanziamento nazionale pari a 500 milioni. Ora il ministero dice: usate quel che vi è rimasto. Le Regioni però di quel fondo ne hanno usato o impegnato già buona parte. Il resto sono pochi spicci, non certo il miliardo che servirebbe per coprire l’attività privata extra. La norma cardine della legge è una scatola vuota.
In studio la sera e il weekend
Il provvedimento prevede la possibilità di fare visite ed esami nel weekend e di prolungare le fasce orarie in cui si fissare gli appuntamenti. Un’altra rivoluzione a metà: in molte Regioni — dall’Emilia alla Lombardia — si fa da anni. E anche qui non si vede un euro o un medico in più. Dice l’assessore toscano Simone Bezzini: «Il punto è avere i professionisti, ma il governo non ce lo permette».
Il tetto alle assunzioni
Se quest’anno il tetto di spesa per il personale sale dal 10 al 15%, dal 2025 sparisce. Lo chiedevano le Regioni. La domanda però è sempre la stessa: con quali soldi? Se il fondo è sempre quello su qualche altra spesa sanitaria bisognerà tagliare, spostando risorse da una parte all’altra: il gioco delle tre carte. Non solo: ogni Regione, per assumere, avrà bisogno di un decreto. Passaggi burocratici che complicano le procedure e minano l’autonomia delle Regioni che hanno sventato almeno il controllo e l’intervento diretto del ministero sulle inadempienze delle Asl. Un paradosso: «Da un lato fanno l’autonomia differenziata, dall’altra centralizzano tutto», per dirla con Angelo Bonelli, Avs.
Straordinari detassati
Una vera novità è la copertura, più di mezzo miliardo da qui al 2027, per introdurre un’imposta sostitutiva del 15% sugli straordinari dei medici. Lavorare di più per tagliare le liste di attesa è la ricetta. Ma che ne pensano i sindacati? «Lavoriamo 60 ore settimanali, il 67% di noi è già in burnout», si sfoga Pierino Di Silverio di Anaao Assomed. «È un insulto a un personale stremato», tuona in sintesi Michele Vannini dell’Fp Cgil.
Il ruolo dei Cup
Il decreto prevede la creazione di un Cup, un centro di prenotazioni,regionale o infraregionale con le agende degli ospedali sia pubblici che privati e dei posti disponibili per ogni singola prestazione sanitaria. La norma non è nuova: i Cup sono previsti da sei anni e per crearli erano stati stanziati 400 milioni. Le Regioni hanno assicurato di essere in regola già dal 2021. Un’indagine di Cittadinanzattiva sostiene però che solo la metà mostra online l’aggiornamento reale dei tempi di attesa nel pubblico e nel privato.
Chi non disdice paga
La nuova legge dedica 19 righe a spiegare l’importanza di disdire, almeno due giorni prima, le prenotazioni degli appuntamenti medici a cui non si può andare e insiste sul fatto che chi dimentica di avvisare deve pagare il ticket. Misure già indicate nella linee guida del 2009.
Il limite all’intramoenia
La legge impone a un medico di lavorare più ore per il pubblico che in libera professione. Difficile che anche il più distratto non sapesse: la norma era già nella legge Bindi del 2006 che ha introdotto l’intramoenia.