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Vivo, ergo sbaglio. Con questo titolo Maciej Bielawski, studioso di spiritualità, docente e scrittore, in occasione di “Torino Spiritualità”, domenica prossima terrà una lectio alla scoperta dell’imperfezione nel mondo nella poesia di Wisława Szymborska, percorsa da una filosofia in cui l’essere umano è imperfetto e spesso sbaglia. Tuttavia, qualsiasi inciampo mette in contatto vitale con la trama della realtà, e in questo nostro incessante errare per le vie del mondo, lastricate di errori, un aiuto può arrivare dall’ironia, che tra i versi di Szymborska scorre ininterrotta.
Una delle manifestazioni di questa ironia Szymborska la realizzava nei collage. Ve n’è uno, per esempio, in cui un uomo è intrecciato a un fiocco, e dice: «Vivete più semplicemente». Bielawski, è ancora possibile oggi, in un’epoca di grande complessità, trovare la via per vivere più semplicemente e in pace?
«Sì è possibile, la vita di Szymborska era relativamente semplice. Lavorava nella redazione di un giornale e si manteneva con poco, vivendo in un piccolo appartamento. Le bastava un angolo tranquillo, con spazi e tempi liberi per pensare, leggere, scrivere e una tazza di caffè. Il Nobel l’ha “costretta” a uscire allo scoperto, ma è sempre riuscita a proteggersi. Al di là di Szymborska, credo sia possibile fare una vita semplice, non siamo costretti a nulla, il contrario è fumo dell’agitazione negli occhi che l’uomo moderno si è creato per scusarsi di non percorrere una vita semplice. Per farlo si deve ridurre, quindi rinunciare a qualcosa; è un prezzo da pagare, ma la rinuncia, la semplicità, sono accessibili, a portata di mano di tutti».
Oltre al tema dell’errore, in Szymborska c’è un’altra certezza: «È persistere nel non sapere – scriveva – qualcosa di importante». Non sono forse proprio l’errore e la non conoscenza i motori per provare a fare sempre un passo in più, mettersi in gioco, vivere?
«Io non so se il mondo sia imperfetto, ma a Szymborska si rivela così, lo vive così, è una sua auto rivelazione e auto convinzione, con cause ed effetti. In questo apparire filosofico del mondo appare il limite della conoscenza umana del mondo. Dunque, questo non la libera, anzi la spinge, come fosse un carburante della curiosità. Credo che tutti noi abbiamo due grandi ali per vivere e conoscere. Una è quella di Szymborska, ovvero la via del disincanto, del limite, della ferita, dello spavento, l’altra è quella dell’incanto. In Szymborska sembra prevalga la prima, con la sua distanza disincantata, ma in lei c’è anche incanto nel disincanto quando osserva il mondo nelle sue particolarità».
Nella corrispondenza tra Szymborska e Filipowicz, l’ironia – nonché il desiderio di felicità dell’altro – diventa anche la chiave per interpretare il sentimento amoroso: «Desidero tanto – scrive Szymborska a Filipowicz in una delle lettere – che tu sia in buona salute e di buon umore». È possibile leggere il sentimento amoroso – spesso narrato con epiloghi tragici – sotto il cappello della serenità d’animo che raddrizza le storture del mondo?
«Si sono amati reciprocamente, ma erano “cavalli che corrono a due velocità diverse”, ha detto lei. Lei viveva le relazioni come un limite, non credeva nel mito assoluto dell’amore romantico che pervade il mondo moderno. In alcune poesie d’amore che ha scritto guarda tutto con ironia, distacco. È una filosofa che poetizza, una pensatrice che non assolutizza nella sua scrittura l’amore romantico, perché per lei è un genere di coinvolgimento relazionale che non dura. Prima o poi finisce, si modifica, non è universale e a molte persone è precluso. Forse si può dire che per lei l’amore, più che segnato dall’ironia – mezzo per alleggerire gli impatti del rapporto amoroso – è segnato dalla discrezione nei confronti del mondo, pronto a distruggere l’amore stesso».
Szymborska è poetessa universale nella sua capacità di andare oltre alle parole e oltre alla vita; è così – andando oltre la parola, quindi nella ricerca di un altro e un altrove – che l’uomo può giungere alla visione del «sommo bene», al quid desiderato ed elevarsi?
«Una delle caratteristiche della sua poesia è la mancanza dell’oltre. Non parla in poesia di un aldilà, di trascendenza, vede Dio soltanto come una metafora, si cala nella parola, nel ritmo poetico, per cogliere la realtà che si presenta misteriosa, ma del mistero come tale si trattiene di parlare. Compone poesie che sono un susseguirsi di parole, ritmi, concetti, immagini, metafore, in modo da colpire il lettore con un silenzio di incomprensibilità che non viene mai violato».
Un’altra caratteristica della sua poesia è quella di partire dalle piccole cose, da descrizioni minime, per raccontare stati d’animo universali. Per elevarsi si deve passare dalla pietra d’inciampo pascaliana, per poi potersi spogliare del superfluo, perdere le piccole cose e potersi infine risollevare dopo aver toccato il fondo?
«Ci sono due poesie, Tutto e Metafisica, che sono due dimensioni nel pensare il mondo a cui la sua poesia si ribella. In questo senso è anti-metafisica nel suo ruolo di pensatrice. Ritorna alle cose, osservandole in modo poetico. Inizia con il concreto per finire in qualcosa di universale di cui paradossalmente non vuole dare la voce. Oppure si ribella al metafisico, come nella poesia Tutto. C’è in lei o una discesa dall’universale al concreto, o viceversa. È da lì che scruta la profondità».
«Per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà». Questa è la motivazione che accompagna il Nobel di Szymborska nel 1996. A distanza di quasi trent’anni si può dire sia ancora la summa della sua opera?
«Questa frase regge, è calzante; ha però dei limiti. Questa è solo una porticina attraverso cui si entra nel suo mondo, ma non è vincolante. È invitante ma non assoluta».
Con Cerco la Parola Szymborska pubblicava, nel 1945, la sua prima poesia. Non crede che tutti noi continuiamo, ogni giorno, a cercare quella parola? E non è forse in questa ricerca che si sostanzia il senso della vita?
«Va ricordato che questa poesia, Cerco la parola, che scrive da giovane appena finita la guerra, ha un background, quello di aver vissuto l’orrore bellico. Lei si pone la domanda come molti si pongono domande esistenziali davanti alle atrocità della guerra. È possibile ancora una poesia? È possibile una letteratura? Se sì, bisogna parlare di cose non narrabili. Come si fa? Penso sia un atteggiamento giusto. Lavorare con il silenzio e con la parola, per i poeti ma più in generale per l’essere umano, che deve imparare ad ascoltare una realtà che – assorbita – si fa parola. La sua poesia è un esempio di questo atteggiamento, che cerca con poche parole di cogliere l’enigma della realtà e posizionarsi di fronte a questo stesso enigma».
La descrizione del suo evento di “Torino Spiritualità” dice: «Perché nel silenzio notturno di una pinacoteca, tra quadri di re e dame indifferenti, continua a squillare un telefono? Chi c’è all’altro capo? Qualcuno che «è vivo, può sbagliare». Mi ha fatto ripensare all’ironia che caratterizzava Szymborska: «Qui parla una poetessa di Cracovia e dintorni», recitava la sua segreteria telefonica. Se potesse telefonare a Szymborska oggi, cosa le direbbe? E cosa direbbe lei del nostro tempo?
«Pur potendola chiamare non la chiamerei mai, rispetterei la sua privacy. Non la chiederei neppure che cosa direbbe del nostro tempo. Ricordo che Szymborska l’ultima raccolta delle sue poesie l’ha intitolata Basta così, come se avesse detto tutto e non volesse aggiungere più nulla. C’è la sua poesia a parlare e tocca a noi riprenderla, rileggerla, reinterpretarla nei nostri tempi e nei contesti, ben diversi dal suo. La sua opera è completa, la sua voce completa. Ha suonato il suo concerto, ora basta, silenzio».