Uno scenario di neve, foreste, paludi, corsi d’acqua sale verso nord da Bialowieza, la imponente foresta millenaria polacca, che un tempo copriva una ampia parte d’Europa. Lo popolano bisonti, orsi bruni, linci, lupi, aquile con tre metri di ali che quando scendono in picchiata tagliano un cane a metà. Questi animali hanno i loro corridoi di transito protetti tra i due lati del confine, qui è terra polacca, di là è Bielorussia. Ma per gli uomini è tutta un’altra storia.
Da qui passa anche il muro che oggi divide i due paesi. Metallo e cemento, una lunghezza di 187 chilometri per una altezza di 5 metri e mezzo, più il filo spinato. Integrato da una recente barriera elettronica di 202 chilometri, precisa il comando generale della guardia di frontiera. Mentre un’altra barriera della stessa lunghezza, sempre elettronica, comincerà ad apparire tra poche settimane sul confine con Kaliningrad, l’enclave russa affacciata sul Baltico. Nelle cronache di questi tempi non si colgono riferimenti alle opere di Kant nato in quella città.
Il muro può essere guardato solo a tre chilometri di distanza, oltre quella soglia il governo di Varsavia ha deciso che scatta la legge marziale e il carcere per chi si inoltra in quella striscia di terra. La temperatura di notte scende a meno 10. E scenderà ancora di più con l’avanzare dell’inverno. Qui veniva lo zar per battute di caccia, quando questo pezzo di confine oscillante metteva la foresta dentro l’impero russo. Nella stessa zona, dopo Hainowka, un cippo in pietra nera ricorda il punto da dove gli ebrei, dopo la spartizione della Polonia tra Hitler e Stalin, furono avviati a decine di migliaia in Siberia.
DI ANNI 16 O 21
Nei giorni scorsi Abdul Rahman, partito dal Sudan, 16 anni, solo, con i piedi congelati incollati alle scarpe, è stato salvato da una Ong in piena notte, a cinque chilometri da Sokolka. Aveva camminato per 25 chilometri, nascosto dagli alberi e dal buio. Poteva immaginare di avere superato gli ostacoli più grandi nella sua fuga verso un futuro in Europa, imprecisato ma rassicurante. Il luogo del salvataggio, ma in seguito anche della sua cattura, visto di notte in verità è solo un ritaglio di bosco avvolto di nero, anche il sentiero della neve sembra nascondersi senza colore.
La polizia ha sbrigativamente deciso che il secondo stadio di ipotermia del ragazzo africano, quando cominciano i sintomi dell’obnubilamento, dopo tre ore era già svanito, e soprattutto che i 16 anni dichiarati erano 21, nonostante la misurazione del suo polso indichi chiaramente a un medico galantuomo che gli anni sono invece 16. A quell’età un minore deve essere protetto per legge, deve essere accolto, non respinto. Adesso è in un centro per adulti a Bialystok, non può vedere nessuno, solo il legale della Ong. Inghiottito dentro la cattolicissima Polonia da un apparato burocratico che gli ha fatto firmare carte in cui dichiara di voler rientrare in Sudan, senza però conoscere la lingua in cui sono scritte.
STRUMENTI DI PROVOCAZIONE
Ma Abdul è un granello di sabbia invisibile, un fantasma come altri, in questa contesa su un territorio dominato da grandi paesi e dai loro attriti secolari. Secondo il primo ministro polacco i clandestini illegali come lui «non sono migranti, ma strumenti delle provocazioni di Lukashenko e di Putin». Oggi attorno a questo confine rimbalzano vicinissimi gli effetti dello scontro tra Russia e Ucraina.
Il viaggio di Abdul è iniziato in Sudan, nell’Africa profonda. Da quel continente parte un nuovo corridoio ancora poco conosciuto con un percorso tortuoso. Raccoglie disperati che partono appunto dal Sudan, dal non meno travagliato Yemen diviso a metà dalla guerra, dal Camerun, dalla Repubblica democratica del Congo, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia afflitta dalla peggiore siccità in quaranta anni, tutti paesi che producono fame e violenza.
Una nuova rotta che costa circa settemila dollari, e che funziona solo perché Mosca concede volentieri il suo visto – tradizionalmente complicato da ottenere – a questi uomini senza futuro in patria. Una rotta ben più lunga di quella che attraversa l’Africa per fermarsi in Libia e poi proseguire temerariamente nel Mediterraneo, ogni volta con una scia assicurata e tragica di cadaveri inghiottiti dal mare. Mentre questo itinerario è tutto via terra.
Questi nuovi migranti in arrivo dal continente nero, come quelli spinti dalla Bielorussia sempre contro il confine polacco già dall’estate del 2021, servono come strumenti di pressione, di ritorsione sui paesi occidentali che “congiurano” contro Mosca. La loro destinazione finale è la Germania. Il paese più ambito e anche il più ospitale in Europa. E per arrivare a destinazione, oltre al visto russo, ci vuole anche dopo questi boschi e queste paludi il pullmino dei trafficanti per attraversare le strade dell’Europa unita, senza fermarsi ai confini.
Forse non è Putin che ha elaborato questo nuovo capitolo di geopolitica, lui ultimamente si dedica ad agitare l’arma nucleare, o a trattare la liberazione del mercante di armi Viktor Bout, condannato negli Usa a 25 anni di carcere e tornato in patria con un jet privato. Magari è stato il cosiddetto cuoco dello zar, il titolare del gruppo Wagner, con i suoi mercenari già collaudati in Libia e in altri focolai africani, a mettere in piedi questo traffico di esseri umani. In media uomini attorno ai 35 anni che non hanno futuro in patria. Wagner probabilmente affiancata da qualche spezzone della mafia russa nelle sue variegate, inaffondabili componenti, con agenzie di viaggio fasulle e fantasiose. Non a caso l’aeroporto di Kaliningrad si sta aprendo ai voli internazionali, anche dall’Africa, anche dall’Etiopia.
Di fatto il muro polacco è stato perfezionato, arricchito negli ultimi tempi da una strada parallela che favorisce interventi rapidi e soprattutto integrato dal nuovo segmento che sorgerà di fronte alla città natale di Kant. Dove tra Polonia e Russia c’è un istmo sottilissimo di circa 80 chilometri, interrotto brevemente solo in un punto, con una vasta laguna che richiama la geografia attorno al mar di Azov, giù in Crimea, dopo che Putin ha fatto costruire il suo ponte dal territorio russo a Sebastopoli. Un ponte sufficientemente basso, per inciso, da impedire il transito alle grandi navi mercantili dirette ai porti ucraini. Questo nuovo muro vicino alla laguna annuncia che il corridoio africano non è un itinerario riservato a pochi disperati, ma una via illegale di transito in espansione.
FUNERALI
Abdul aspetta la sua sorte, in apparenza fortunata rispetto ad altri. Nei giorni scorsi si è svolto il funerale di Sidding Musa Hamid Eisa, anche lui sudanese, morto probabilmente ai primi di ottobre, e ritrovato dopo un mese in un fiume sempre nella zona di confine. Aveva 21 anni, è stato sepolto nel cimitero islamico nel villaggio tataro di Bohoniki. Sono due le moschee rimaste nella zona. Ma prima della seconda guerra mondiale erano una ventina, così garantisce la signora che recita con piglio deciso in sostituzione del mullah dentro la piccola moschea gelida.
Ormai gli abitanti che hanno dimestichezza con il Corano sono rari, e i funerali ancora di più. Attorno a questa frontiera sopravvive ancora una minoranza islamica, in passato molto forte. Con ramificazioni in Lituania e in Ucraina. I sauditi la sostengono economicamente quando è il momento del pellegrinaggio a La Mecca.
Certe eredità non si cancellano in fretta. Sobieski, re cristiano della grande Polonia, aveva allargato il paese dal mar Baltico fino al mar Nero e aveva liberato Vienna dall’assedio dei turchi. I discendenti dell’orda d’oro mongola, sconfitti ma in seguito capaci di lealtà, avevano ricevuto in dono terreni ed erano stati autorizzati a sposare donne polacche. A pochi chilometri dalla moschea si incontra il cimitero ebraico di Krynki, con migliaia di lapidi abbandonate, piegate, maltrattate dal tempo, mentre non un solo ebreo vive più qui.
LUOGHI OSTILI
Gli stessi luoghi dove oggi i figli dell’Africa si nascondono e si difendono dal deserto bianco, a loro ignoto, e dagli sguardi ostili di chi non li ha mai incontrati prima, sono da soli altrettanto eloquenti dei racconti forniti dai testimoni locali. Camminando sulla neve fresca, tra sterpaglie alte che il gelo ha reso graffianti come le spine, si arriva a due depositi di fieno dalle mura ben conservate, con le grandi balle rotonde che salgono fino al soffitto, tra le quali è stato scavato come un corridoio. Qui attorno in primavera si erano aggirati tre personaggi di solida stazza, con un’auto targata Bielorussia. Sembravano militari in borghese, che facevano una ricognizione, o avanguardie dei trafficanti di uomini. Qui le case di contadini e allevatori sono sparse con parsimonia, difficile che le finestre di una riescano a vedere le finestre di un’altra. E con la neve spesso solo un trattore aiuta a muoversi. Lo spazio allo scoperto, senza la protezione delle betulle o di altre piante più grosse, non garantisce marce furtive.
Dentro i due depositi si accumulano i resti di un bivacco misero e frettoloso, abiti leggeri ormai inutilizzabili, scarpe sfondate, tracce di fogli doganali, confezioni di medicinali, il foglio di una assicurazione bielorussa che promette di assicurare il nulla, qualche pila scarica, anche una scatoletta di caviale. Il mio accompagnatore dice: «La faccio sparire, perché se la vede qualche nazionalista fanatico poi dirà in televisione che questi disperati si trattano bene, che mangiano perfino caviale». E in ogni caso, anche in questa zona di case sparse, isolate, dove la solidarietà tra vicini cresce spontaneamente, qualcuno voleva con zelo chiamare la polizia. Ma in altre zone sempre con uno scenario naturale simile di boschi, gelo e animali selvatici, in case abitate da uomini e donne generose, incuranti dei divieti imposti dalle autorità, erano comparse già nell’inverno scorso le lanterne verdi. Dietro i vetri e la porta promettevano un letto, forse un bagno, un abito asciutto, un piatto caldo, oppure tutte queste cose insieme. Un semaforo verde muto che annunciava una sosta protetta.
CAOS A KUZNICA
Quella era la grande ondata dei migranti: soprattutto afgani in fuga dai talebani e siriani, spinti verso ovest dai bielorussi non certo per ragioni umanitarie. I primi erano comparsi sempre nel 2021 già a luglio con la barriera protettiva della vegetazione al suo massimo, e senza lasciare orme sulla neve. Poi l’8 agosto era arrivato un gruppo più consistente di sessanta persone in un villaggio che oggi appare sgangherato, o forse soltanto amputato nei suoi ritmi abituali dalla vicinanza con il muro. La miccia attraverso il corridoio russo ormai era accesa, dopo i morti in mare attraverso il Mediterraneo e quelli lungo la rotta dei sentieri balcanici. Qui oggi avvicinarsi a quel muro scatena il suono minaccioso, profondo di un allarme, attivato da qualche sensore. A inizio settembre era stata dichiarata la legge marziale. E a novembre, sempre il giorno 8, a Kuznica, un migliaio di profughi erano stati spinti verso il confine polacco dalla Bielorussia. Stimati da Varsavia a quattromila e fermati con durezza, mentre Minsk impediva loro di tornare indietro. Chiusi in una improvvisata terra di nessuno.
Il caos a Kuznica era iniziato alle tre di notte, erano arrivati gli elicotteri, le grandi televisioni straniere. Passavano le ore, i residenti con le borse della spesa correvano perdendo verdura e forme di pane, racconta chi era presente. Era ufficialmente iniziata su suggerimento di Mosca la guerra contro i migranti, ma soprattutto contro i paesi europei destinatari di quel flusso. La operazione speciale in Ucraina scatterà un centinaio di giorni dopo.
DATI PARZIALI
In quei giorni uno yemenita dalla pelle troppo scura per passare inosservato era approdato fino a qui, vicino ai due depositi abbandonati di fieno. E oggi, alla redazione della radio di Bialystok, capoluogo di questo voivodato di confine, dicono che anche per il corridoio africano le cose erano cominciate da tempo. Almeno già a febbraio di quest’anno. Non ci sono ancora cifre sicure su questo corridoio, perché la destinazione finale non è la Polonia ma la Germania. Dicono che sono i tedeschi a conoscerle meglio, perché gli africani non vogliono fermarsi qui, ma arrivare da loro. Negli ultimi due mesi comunque i volontari che lavorano su questo confine hanno ricevuto 1104 richieste di intervento, le persone assistite sono 629, i dispersi 256.
Le autorità di Varsavia danno questi numeri per gli illegali: quasi 40mila nel 2021, circa 15mila quest’anno. Aggiungono che non arrivano più in compagini di cinquanta persone, con pietre e bottiglie, danneggiando auto della polizia e macchine edili per sfondare il muro, ma solo in piccoli gruppi. Questo ultimo elemento coincide con le conclusioni delle Ong: non ci sono numeri e statistiche sicure, si conoscono solo rapporti parziali, ma per i volontari gli arrivi tendono a salire.
Uno di loro, un uomo maturo, asciutto nel fisico e nelle parole, aggiunge che il suo lavoro ha una “dimensione” furtiva. Dopo una chiamata di soccorso lui e i suoi sono in viaggio entro un quarto d’ora. A volte bastano solo venti minuti per raggiungere il profugo rimasto senza punti di riferimento, aiutarlo con vestiti caldi, cibo, medicine e qualche indicazione logistica per poi restituirlo al suo destino solitario. Una volta è arrivata una segnalazione che ha richiesto sette ore di marcia a piedi nella foresta solo per raggiungere chi chiedeva aiuto e altrettante per tornare indietro. Quando però serve una ambulanza allora non c’è l’incubo della fretta, la polizia deve tollerare l’intervento umanitario, la presenza di un medico e tollerare anche la presenza di qualche cronista al seguito. Questi volontari sono riuniti sotto la sigla di Grupa Granica, gruppo della frontiera. Ancora una volta la parola “confine” mostra come in tutti i paesi del mondo che il suo richiamo ha una ambiguità potente, velenosa o fraterna, a seconda di chi lo maneggia.
LA BELLICOSA POLONIA
La Polonia che aveva prodotto Solidarnosc oltre quaranta anni fa, anticipando la perestrojka e la glasnost di Gorbaciov, aveva avuto poi una mutazione profonda nel 2007 quando i due gemelli Kaczynski si erano divisi il potere, Lech capo dello stato, Jaroslav primo ministro. Un primato storico per il quale nessuno studioso polacco ha potuto indicarmi un precedente andando indietro nei secoli. Oggi questo paese è un’altra cosa. Nelle stanze del potere si aggira ancora Jaroslav, solo, sempre a capo del partito di maggioranza Legge e giustizia. Suo fratello morì anni fa precipitato con il volo di stato mentre si dirigeva in Russia a commemorare i 22mila ufficiali e intellettuali polacchi uccisi dai sovietici nella foresta di Katyn. Subito quella tragedia aveva riacceso con violenza vecchi attriti tra i due paesi.
Kaczynski è sostenuto orgogliosamente dal clero più conservatore, schierato con zelo dentro la Nato, ma reticente con le scelte liberali della Unione europea. Il governo ha proposto dopo i primi tempi della guerra in Ucraina di offrire i suoi Mig a Kiev, che significava una aperta dichiarazione di guerra a Mosca in nome della alleanza atlantica. Poi i Mig non sono mai arrivati a destinazione. Ma in ogni caso questo fervore militaresco si è espresso in altri modi.
L’esercito di Varsavia ha grandi progetti. Nei mesi scorsi è stato firmato un contratto con la Corea del sud per 980 carri armati, 672 cannoni e 48 aerei da caccia arrivando a un totale di 15 miliardi di dollari. Il contratto più grande firmato da un membro dell’ex blocco sovietico, che avrà così il primo esercito di terra in Europa. Qualche mese prima erano stati acquistati aerei americani e altri armamenti per cinque miliardi di dollari. E una fornitura mirabolante di armi made in Usa è stata annunciata per il futuro. Per alcuni commentatori americani la Polonia è considerata da tempo come il 51° stato invisibile sulla bandiera a stelle e strisce per servigi trasversali resi su Cuba, la Corea del Nord e prigioni clandestine.
CORTINA DI FERRO
Oggi paradossalmente il muro con la Bielorussia produce una ricostruzione parziale della cortina di ferro, questa volta costruita dall’occidente ma in fondo sempre su ispirazione del Cremlino. Ancora più sorprendente, forse allarmante, è il muro che inizierà davanti a Kaliningrad.
Già oggi i commercianti polacchi vicini a quella enclave si lamentano dei clienti russi persi che venivano a fare acquisti in massa nei loro negozi, come gli jugoslavi una volta a Trieste. Forse sostituiti dai fantasmi africani che nelle vicinanze della laguna tenteranno un percorso simile, con un obiettivo più complicato che andare al supermercato con i prezzi bassi. E dai voli diretti dall’Africa a Kaliningrad.