MARIA ORSINI NATALE
In “Francesca e Nunziata” la scrittrice riesce ad innestare con rara maestria lo specifico della saga familiareall’interno del complesso contesto socio-politico della storia d’Italia di fine Ottocento
diSerenella Iovino
Per parlare di Maria Orsini Natale bisogna anzitutto partire da quello che è stata: una scrittrice vesuviana. Vesuviana, non napoletana. La differenza non è solo antropologica: è metafisica. Le due cose s’intrecciano ma non si equivalgono, convivono ma non coincidono. “Vesuviano” sta a “napoletano” come la geologia sta alla storia, come il mito sta alla politica. La storia può essere lunghissima, antichissima, ma la geologia, il sostrato, è abissale. La politica è umana, la puoi agire, la puoi toccare. Il mito no. È lui che tocca te, lui che ti agisce: il mito è come il mare, appartiene alla psiche e agli dèi. E poi, insomma, Napoli è una città; esiste da neppure tremila anni. Il Vesuvio è un vulcano. Sta là da quattrocentomila. A Torre Annunziata, città di Orsini, c’è il Vesuvio. E sta in riva al mare. In mezzo, è vero, c’è il caos; ma è proprio lì che, per chi lo vede, si apre lo spazio per i racconti.
Maria Orsini Natale ( 1928- 2010) questo spazio lo ha visto e abitato alungo. Affabulatrice prima che scrittrice, fu autrice di romanzi, memorie, poesie, favole. Sono tutte opere personalissime dotate di un’apertura narrativa che colpisce. Lo prova l’incipit di Francesca e Nunziata,suo primo romanzo: «Francesca era nata il sei di gennaio del milleottocentoquarantanove. Era nata su una di quelle alture della costa amalfitana dove la terra precipita e dirupa in un cielo capovolto, che nelle notti serene le luci delle lampare fanno stellato » . Il suo fu un esordio tardivo ( aveva sessantasette anni), ma fortunato. Francesca e Nunziata infatti entrò nella dozzina dello Strega e vinse tre premi. Nel 2001 Lina Wertmüller ne trasse un film, protagonisti Sophia Loren e Giancarlo Giannini. Oggi è tradotto in sei lingue. Questo dimostra una cosa: anche se le sue opere sono tutte di ambiente vesuviano, con Torre Annunziata sempre sullo sfondo, Orsini non è una scrittrice “ locale”. I suoi libri più importanti, Francesca e Nunziata, Il terrazzo della villa rosaeLa bambina dietro la porta, sono quadri di un romanzo di formazione collettiva. Formazione che sconfina nel disfacimento, ma questo è nelle cose. Che si tratti della storia di due donne e del loro talento di pastaie e imprenditrici, di gente che parla del Vesuvio come di «un cristiano» o di lei stessa bambina, cresciuta in un paesaggio omerico che sarà bombardato dagli Alleati e saccheggiato dagli speculatori, Orsini sta tratteggiando il modo in cui i destini individuali incarnano un mondo e un’epoca. E insieme testimoniano una sostanza di cui tutti sono accidenti: il vulcano, geologico deus sive natura che dà la misura e « ci fa guardare tutte le cose da grandi distanze, da limiti stellari».
Sospesa sull’abisso, la città di Orsini è il suo osservatorio. Senza idealismi: Torre Annunziata non è Acitrezza né Macondo, e anzi è un posto che in molti modi sfida chi lo abita. Ma è un posto con una storia. Qui si sono avvicendati popoli, lingue, sangue, eruzioni, padroni. È una città fiorita e sfiorita più volte, passata di mano a saraceni, Angioini, Borboni, bonapartisti, Borboni ancora e piemontesi ( la squadra locale si chiama Savoia). InFrancesca e Nunziata,che avrebbe dovuto intitolarsi Ottocento vesuviano, Orsini recupera la vicenda della sua famiglia, testimone di una fase della storia italiana in cui città di provincia come Torre Annunziata mostrarono una vocazione imprenditoriale e cosmopolita. Lo prova la parabola dell’arte bianca, che fino al Dopoguerra qui prosperò con oltre cento pastifici, sviluppando una rete di scambi estesa dal mar d’Azov all’America. Artefici di questa fortuna spesso furono donne.
Valeria Parrella, come Orsini scrittrice vesuviana, ha detto che inFrancesca e Nunziata « c’è un grande Sud, che è il posto da cui potrebbe ricominciare tutto » . Ciò è vero nella misura in cui nel Sud di Maria Orsini tutto è già cominciato e finito, anzi non smette di cominciare e finire. Orsini infatti ha la capacità di ritrarre persone e luoghi in momenti di presenza assoluta, e poi di farli scivolare. È l’eterno detto di Anassimandro, che vede gli esseri farsi e disfarsi nella loro indefinita origine secondo necessità, giustizia e « l’ordine del tempo » . Questo del resto fanno i narratori: fanno e disfano, con un occhio all’origine e l’altro alla fine. L’arco narrativo di Orsini è amplissimo e fulmineo, perché tutto è già successo. Le nascite e le morti sono naturali come i giorni che finiscono, gli anni che passano. Lo capiamo quando Orsini ci mostra la collezione di cappelli di Francesca e, incidentalmente, ci dice che «dal chiuso di quella sua casa solo da morta ne uscì senza » . O quando i suoi personaggi ( e lei stessa) tornano dov’era una casa, una spiaggia, un pastificio.
Non è Macondo né Acitrezza, Torre Annunziata. Ma è una città che ha avuto una storia e una scrittrice che, attingendo ai fatti della sua famiglia, l’ha raccontata. Per chi in quella stessa città, e famiglia, ci è nata, scrivere di Maria è quasi una seduta psicoanalitica. In una delle nostre ultime chiacchierate mi ha lasciato un ricordo di suo padre. Era vecchio, stava morendo; e non si faceva capace. Le aveva detto: «Mari’, io mò ero criaturo». «Serene’, io mò ero criatura » , disse lei a me; e io ci penso spesso. Tutto scorre sempre troppo in fretta. Noi vesuviani l’abbiamo risolta barattando la storia con la geologia. È un azzardo, sì; ma in fondo è un gioco. E il tempo, insegnò Eraclito, è un bambino che gioca.