L’anno che si è chiuso potrebbe essere ricordato non solo per il ritorno di Donald Trump, ma per l’affermarsi insieme a lui di una nuova destra stabilmente egemone negli Usa e capace di radicarsi anche in Europa. Certo è meglio essere cauti con le previsioni, specie quando c’è di mezzo la politica, ma diversi indizi inducono a credere che potremmo essere all’inizio di un nuovo ciclo della destra al comando nelle democrazie consolidate dell’Occidente. Come conseguenza, si determinerebbe un mutamento significativo delle stesse istituzioni democratiche in direzione autoritaria e una compressione del pluralismo che ne ha sin qui segnato i connotati. Quali elementi si possono portare a sostegno di questa ipotesi?

Anzitutto bisogna considerare che la destra è stata più capace della sinistra di reiventarsi e di elaborare una nuova offerta politica che è apparsa più credibile agli elettori delle democrazie, nonostante le pesanti contraddizioni. Non così la sinistra, che è rimasta orfana del “compromesso socialdemocratico” di cui era stata protagonista nei primi decenni dopo la guerra (politiche economiche keynesiane, welfare, relazioni industriali, ecc.). Esauritasi questa fase sotto i colpi dell’inflazione degli anni Settanta e dell’aggressiva controffensiva politico-culturale della destra all’insegna del neo-liberismo, la sinistra non ha trovato di meglio che subire l’iniziativa della destra sul piano economico sociale (siamo negli anni della Terza Via).

Si è dunque distinta più sul terreno dell’azione per i diritti civili che sul piano dei diritti sociali e del lavoro. In tal modo la sinistra ha fortemente scontentato il suo elettorato popolare, sempre più colpito dagli effetti della globalizzazione e dai cambiamenti dell’organizzazione produttiva. È proprio nel dare una risposta a quest’ampia area sociale popolare e di ceto medio che si è manifestata l‘abilità politica e la capacità di reinventarsi della destra. A fronte di una sinistra incapace, con qualche eccezione nel Nord Europa, di sperimentare vie nuove per contrastare le crescenti disuguaglianze e reagire al declino.

Com’è noto, la ricetta della nuova destra si è basata su un ingrediente fondamentale: spostare la rappresentanza dagli interessi all’identità. Questa manovra ha due vantaggi importanti. Il primo riguarda la possibilità di conciliare gli interessi molto contrastanti che possono essere presenti nel suo elettorato (com’è evidente nel partito repubblicano di Trump per il quale votano sia i supermiliardari che i più poveri).

La politica dell’identità permette di tenere insieme più interessi contrastanti. Quelli di chi chiede meno tasse e meno regole e di chi avrebbe bisogno di più redistribuzione e quindi maggiore tassazione, oltre che meno dazi e prezzi più bassi. Da qui l’insistenza sul concetto di popolo e di nazione che tagliano attraverso le classi, sull’individuazione di nemici esterni, sull’appartenenza religiosa e i suoi valori tradizionali (ma anche sulla leva del razzismo). In questa stessa chiave sappiamo quanto siano importanti l’ostilità all’immigrazione e all’establishment e il tema della sicurezza. L’insistenza su tutti questi elementi, ma soprattutto il riferimento al “popolo”, permettono di qualificare come populista l’offerta della nuova destra.

C’è poi il secondo vantaggio non meno rilevante ma più trascurato della politica dell’identità. Spostare le basi del consenso su questo terreno tende a stabilizzare il voto, perché si basa di più sul soddisfacimento di obiettivi di identità perseguibili anche con una radicalizzazione ideologica più che sui risultati economico-sociali. Insomma, si può continuare a votare per la nuova destra anche se i risultati delle sue politiche quando governa non sono positivi sul piano economico per una parte del suo elettorato. Che è però compensato – almeno fino a un certo punto – da un’offerta crescente di identità. Per questo motivo non si può sperare che la nuova destra sia destinata a lasciare presto la scena per effetto delle sue politiche economiche.

Cosi come non si può pensare che per allontanarla dal potere basti la denuncia dei costi della sua azione sul piano della compressione del pluralismo e di una crescente deriva autoritaria legata all’insofferenza per i checks and balances, per i vincoli che le democrazie liberali pongono all’azione dei capi a favore del popolo.

In questo senso, si può ipotizzare che si apra un nuovo ciclo della destra nel governo delle democrazie. Specie se la sinistra non si impegnerà a ripensarsi e a ricostruire in positivo un’offerta adeguata sul terreno degli interessi e dell’identità.