«Ora devi trovarti degli hobby. Non guardarmi cosi, degli hobby. Le donne della tua età che cercano di rientrare nel mercato del lavoro facendo quello che facevano prima in genere non ci riescono e stanno malissimo». Qualche anno fa, quando mi sono dimessa (da privilegiata, che aveva guadagnato bene, con soldi da parte, eccetera) la mia medica di base Aurora fu brutale e utile. Avevo scollinato volontariamente. Ero in un altro mondo dove non si accumulavano punteggi, non si ottenevano riconoscimenti, non si aveva un ruolo. Bisognava ripartire, smettere di sentirsi inutili, trovare cose da fare (poi è arrivata la pandemia e da allora non c’è stigma a stare a casa, quindi bene). Non riesce subito, quando si lascia o si va in pensione. Ma quando riesce non è male. Non si vorrebbe più tornare indietro, ai capi dementi, ai mezzi pubblici che non arrivano, al basso continuo di stress e cupezza che certi impieghi portano. Vien da dire «non ho più il fisico», poi si ammette di non averlo mai avuto. O di averlo eccome, per fare, finalmente, altro.
Essere donne aiuta
Perché sì. Prendete le ultime boomer, che si avviano ad abbandonare il lavoro ora, e lo temono, e lo sognano. Sono state le più esposte alla cultura del carrierismo, forse negli anni Ottanta hanno letto Capital, forse al primo impiego mettevano giacche con le spalle imbottite. Hanno lavorato come bestie, tenuto punteggi, vissuto nell’ansia quando arrivavano insieme opportunità e figli. Quando finisce, stanno meglio dei coetanei maschi. Che hanno trascurato la prole bambina, afflitto partner e altri cari parlando continuamente di lavoro, e quando smettono vanno in depressione. Anche brutta, anche seria, spesso immotivata. Così capita che tardone messe alla porta anche male incontrino coetanei buttati fuori più gentilmente; però ridotti in pochi mesi tipo abate Faria, non solo cupi ma pure col barbone. E vorrebbero dire ai neo-Faria che può non andare così. Che la loro identità non dipende e non dipendeva dal loro impiego (alle persone care non importava, anzi, non sopportavano monologhi e monomanie). Che quella che ora si chiama la “New Old Age” consente, da invecchiati gagliardi con tempo libero, di esplorare nuove cose da fare, anche stupide. Bisogna accettare la situazione, rinunciare alla competizione al netto dei tornei sportivi senior (consigliati), sedersi al bar da depressi e lentamente sdeprimersi, godendosi il sole, origliando conversazioni, parlando con altri umani, reimparando a vivere.
Essere ricchi è utile
Va da se’. Però chi smette di lavorare è ricco di tempo. Può prendere aerei nei giorni feriali, viaggiare fuori stagione a prezzo modico, fare abbonamenti scontati, risparmiare e imparare molto sul cibo andando nei mercati. I mercati sono luogo da pensionati ma sono molto meglio dei cantieri da guardare, perché sono, nel brevissimo termine, cause di nuove attività, nel senso che uno poi cucina.
Avere figli non è necessario
E non è sufficiente. Certi studiosi americani della felicità, partendo da un coefficiente di felicità 100 per le donne, toglievano dieci punti per ogni figlio. Perché, si sa, ci si preoccupa e si trova sempre di che. In più, l’adulto che smette di lavorare, se ha figli, tende a trasferire ambizioni e ansie su di loro, risultando fastidioso/a. Per la prole e per gli amici, con cui si vanta dei successi e si lamenta perché il figlio/figlia non segue i suoi consigli grazie ai quali svolterebbe in ogni campo. Certo, una minoranza di figli fa ancora figli. E regala nipoti a una new wave di nonni riluttanti alla cura continua o a chiamata (ma poi succede, a meno di non emigrare con un Golden Visa).
Cambiare fa bene
Non c’è più bisogno di essere come prima. Non è obbligatorio trovare occupazioni simili a quelle di prima. Chi aveva un lavoro di concetto può provare nuove soddisfazioni dandosi a cose manuali. Chi ha fatto lavori manuali può provarle rifacendosi una cultura. A tutti fa bene un cambio totale. A chi ha preso male la fine del lavoro, fa benissimo.
Essere mediocri rasserena
Avvertenza importante, per chiunque e per chi cambia del tutto. Chi smette di lavorare e fa cose nuove non sarà tanto bravo, forse non lo diventerà mai. Chi ha vissuto col panico da risultati dovrà accettare risultati mediocri, all’inizio e forse sempre. Va benissimo. E’ liberatorio. Non si diventerà giardinieri/cuochi/falegnami/distillatori/smanettoni (ci sono smanettoni in età)/pittori/ceramisti/scrittori (attività sconsigliata, ma vabbè) eccezionali, probabilmente. Va bene così, anzi è quello il punto. Si fa perché si ama fare, per godersi ogni passaggio e ogni piccolo progresso. Non si fa più per vincere qualcosa, o perché è quello che ci si aspetta da noi.
Dire la verità libera
Non bisogna aver paura di ammettere passati errori, debolezze, eccessi; a se stessi e poi agli altri, avendone voglia. Di ammettere che si è stati autolesionisti, malmostosi, insopportabili. Che c’era un po’ di colpa nostra anche quando avevamo ragione. Magari non tanta, in genere abbastanza per ricordare, rielaborare. E seppellire per sempre o quasi rabbie e frustrazioni.
Essere marxisti è decisivo
Sul serio. «…La società comunista… mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia». Così Karl Marx ne L’ideologia tedesca. Ora si mangia meno carne, specie in città all’allevare mucche molti preferiscono le piante in vaso. C’è chi pesca, più gente marcia, fa ginnastica, prova a imitare le anziane della comunità cinese che la mattina, nei parchi, in gruppo, fanno tai chi. Tutti, volentieri, criticano. L’importante è non farlo in solitudine, digitando sul telefono. L’importante è farlo al bar, come sopra. O in qualunque posto in cui quotidianamente, comodamente, si socializza con altri umani (bisogna fare uno sforzo anche d’inverno da impigriti, così impigriti da non aver più voglia di uscire e criticare, e invece).