Nel 1992 la Knesset, il Parlamento israeliano, adottò una legge destinata a modificare il proprio sistema elettorale per cercare di dare maggiore stabilità al Paese. La nuovo norma trasformava Israele nella prima democrazia parlamentare in cui il premier veniva eletto direttamente dagli elettori. Una sorta di “presidenzializzazione” della democrazia parlamentare, in un Paese dove già il capo dello Stato aveva, e ha tuttora, un ruolo marginale e in gran parte solo di rappresentanza.
Il voto diretto al premier avrebbe dovuto mettere un freno alla frammentazione del voto – e quindi della Knesset – in una moltitudine di partiti. Ma la nuova riforma elettorale fallì miseramente il suo obiettivo e fu mantenuta solo per tre elezioni (1996, 1999 e 2001) prima di essere abrogata. Prima di fallire questa riforma suscitò interesse anche in alcuni partiti centristi italiani mentre la Prima Repubblica stava cadendo sotto i colpi di Mani Pulite. Fra i più interessati, Giorgio La Malfa, allora leader del Pri ma anche settori lib-lab, che però non avevano candidature “forti” per un premierato.
In pochi mesi fu chiaro in Israele che la nuova riforma, invece di limitare il potere dei partiti più piccoli che avevano causato lo stallo, spinse gli elettori a dividere il voto. Da una parte la scheda a favore del candidato premier, dall’altra la scheda per il partito da eleggere alla Knesset. Senza l’incentivo a votare per uno dei partiti principali – in modo che il suo leader potesse diventare premier – gli elettori votarono per partiti più piccoli e marginali, frammentando ulteriormente il panorama politico.
Nella prima elezione diretta del premier, Benjamin Netanyahu nel 1996 prevalse con il 50,5% dei voti, rispetto a Shimon Peres, che ne ottenne il 49,5%. Fra i due lo scarto fu di soli 29.457 voti. Tuttavia, alla Knesset, la lista di Netanyahu, formata oltreché dal Likud, da Gesher e Tzometz, ottenne solo 32 seggi su 120, il che rese necessario formare un governo di coalizione. Al momento del giuramento, la coalizione che sosteneva il primo governo Netanyahu era composta da otto partiti. Un’armata Brancaleone attraversata da veti incrociati, antipatie, odi ancestrali e affamata di finanziamenti. Al voto, i maggiori partiti – Likud e Labour – persero una decina di seggi e questo decretò il fallimento della riforma elettorale dell’elezione diretta del premier.
Il suo impatto sul sistema politico israeliano fu devastante anche per alcune carenze della riforma – il ricorso al doppio scrutinio, la possibilità di elezioni suppletive solo per il premier, la persistenza del voto di fiducia e il potere parlamentare di votare lo scioglimento anticipato – e questo portò a spaccature di ticket elettorali, frammentazione dei partiti, coalizioni impraticabili, paralisi del governo e frequenti elezioni anticipate.
Ecco perché la proposta del premierato diretto lanciata di nuovo nel 2019 da Aryeh Deri, leader del partito religioso Shas e stretto alleato di Netanyahu, per superare l’ennesimo stallo politico in Israele (quattro elezioni consecutive senza una maggioranza) attraverso la scelta diretta del premier ha fatto sorgere più di un dubbio. Deri all’epoca lanciò l’idea di una corsa a due tra Netanyahu e suo principale avversario, il capo del partito Kahol Lavan Benny Gantz. La convinzione era di avere nel Bibi nazionale un candidato quasi imbattibile per esperienza, spregiudicatezza, scaltrezza politica e solide relazioni personali con leader internazionali. Poi sono cominciati i guai giudiziari per Netanyahu, per sua moglie Sara, per l’aggressivo figlio Yair, e la proposta di Deri è tornata nel cassetto.