ROMA
Con la cessione di quasi 92 milioni di azioni Eni per poco meno di 1,4 miliardi comunicata nella tarda serata di mercoledì, il piano di privatizzazioni avviato lo scorso anno dal Governo arriva a quota 3 miliardi. Il primo scalino, in due mosse, era stato costruito con le cessioni di quote di Monte dei Paschi, che potrebbero conoscere presto nuovi passaggi per il 26,7 per cento ancora in mano al Tesoro a valle dei 90 giorni di lock up (lo stop a ulteriori vendite) dalla precedente operazione che andrebbero a scadenza a fine giugno. Da quel fronte, stando ai dati di Borsa di ieri, potrebbero arrivare altri 1,7 miliardi, mentre il boccone potenzialmente più ricco è quello di Poste in cui l’uscita dello Stato, pur mantenendo il controllo attraverso le azioni in mano a Cdp, potrebbe valere fino a 5 miliardi. Totale: 9,7 miliardi. Tanti, ma molti meno rispetto ai circa 21 rappresentati dal piano di dismissioni da un punto di Pil previsto entro il 2027 dal programma ufficiale di finanza pubblica.
Ieri il titolo Eni è stato al centro della scena di Piazza Affari, dove scambi superiori di oltre il triplo rispetto alla media mensile hanno fatto cedere il 2,2% a quota 14,78 euro. Si tratta comunque di un assestamento quasi meccanico per allinearsi ai valori dell’operazione lampo condotta a sorpresa dal ministero dell’Economia con Jefferies (l’unica banca d’affari in pista ad aver partecipato anche alle due tranche di Mps), Goldman Sachs e Ubs nel ruolo di joint global coordinators and joint bookrunners. Anzi, con 14,855 euro il ministero dell’Economia ha spuntato un prezzo ancora leggermente maggiore rispetto alle quotazioni di ieri, grazie a uno sconto minimo dell’1,7% rispetto ai valori di riferimento dell’operazione: nei calcoli del Tesoro uno sconto così leggero colloca la performance dell’operazione Eni al secondo posto nella graduatoria mondiale di quest’anno, quando lo sconto medio per operazioni di questo tipo è arrivato intorno al 5 per cento.
Ieri le critiche alla decisione sul Cane a sei zampe sono arrivate dal fronte sindacale, con la Cgil che parla di «resa del governo ai poteri forti della finanza», mentre il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra torna a dire che «gli asset strategici si difendono, non si svendono». Al di là dei toni, l’accusa è quella di «fare cassa» in una logica di breve periodo, che in prospettiva comporta invece la rinuncia ai dividendi. Nel conto entra però anche il risparmio in termini di interessi prodotto dalla riduzione del debito pubblico, che rappresenta oggi la priorità assoluta del Governo. Va ricordato che alla sua nascita nel 2023 il piano di privatizzazioni, ambizioso quanto sfumato nei suoi contorni, serviva a mantenere piatta la linea del rapporto fra debito e Pil; oggi, con gli aggiornamenti al rialzo dell’eredità dei crediti d’imposta, serve a evitare che la salita si riveli più ripida. Lo dimostrano i calcoli diffusi mercoledì dalla commissione Ue, che per il 2025 stima nei conti italiani 2,8 punti di debito/Pil in più rispetto al Def anche per le incognite legate agli obiettivi delle privatizzazioni.
Obiettivi che appaiono dunque in salita. Anche perché, al netto delle eventuali mosse su Poste e su ulteriori tranche di Mps, le alternative non sono molte. Teoricamente, infatti, lo Stato ha quote di peso anche in altre partecipate considerate appetibili come Leonardo (30,2%), ma è improbabile che si decida di andare sotto quella soglia per un asset considerato strategico per la difesa. Stesso ragionamento, poi, sembra valere anche per un altro pezzo da novanta come l’Enel, dove il Mef è al momento al 23,59% e un’ulteriore discesa nel capitale esporrebbe la società anche a possibili fuoriprogramma con il rischio che la lista proposta dal Tesoro per il rinnovo del cda non abbia i numeri sufficienti. Infine c’è il dossier Ferrovie: su questo fronte, ciclicamente, si riparla di una possibile quotazione, i cui contorni, però, sono decisamente complessi per immaginare una tempistica prevedibile.