«Le posizioni delle parti sono molto lontane l’una dall’altra». Lo sconcerto di Viktor Orban, dopo due ore e mezzo trascorse con Vladimir Putin al Cremlino a cercare di convincerlo ad accettare una tregua sul fronte ucraino, sembra ricordare quello già manifestato, negli ultimi dieci anni, da tanti altri aspiranti negoziatori più illustri, come Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Perfino un politico come Orban, che nella sua solidarietà con la Russia si è spinto fino a uno scontro con l’Europa, ha ricevuto un’accoglienza abbastanza fredda: «Ha esposto principalmente il punto di vista occidentale», è stato il commento di Putin. Che ha replicato ripetendo le proprie condizioni, con l’ultimatum all’Ucraina a ritirarsi da quattro regioni – peraltro solo parzialmente occupate dalle truppe russe – e compiere altri passi «irreversibili» per accontentare Mosca, prima di qualunque negoziato su una tregua.
Nulla di nuovo nella tattica putiniana, che ha sempre considerato il compromesso come una manifestazione di debolezza, che va a chiudere un periodo di attivismo diplomatico. La parola “tregua” è stata pronunciata più volte, a Kiev – dove Orban si è recato per inaugurare il suo semestre di presidenza dell’Unione Europea – e ad Astana, dove è stato invece il leader turco Recep Tayyip Erdogan a proporre a Putin una poco immaginabile «pace giusta per entrambe le parti». Nel mezzo ci sono state le indiscrezioni dei media ucraini su un presunto piano di pace che il ministro dell’Interno russo Vladimir Kolokoltsev avrebbe presentato nel corso di una visita semisegreta negli Stati Uniti, con richieste molto più contenute: “soltanto” due regioni ucraine da annettere alla Russia, con la Crimea amministrata congiuntamente. E poi c’è il non meglio specificato “piano di pace” annunciato da Donald Trump, che ha preoccupato non soltanto Volodymyr Zelensky.
Forse tutto questo proliferare di piani e proposte di tregua sarebbe da interpretare proprio nell’ottica delle elezioni americane. Lo stesso Putin ha detto ad Astana che si potrà «discutere la sicurezza globale» soltanto dopo novembre, e molti commentatori russi non nascondono di stare aspettando il cambio della guardia alla Casa Bianca. Ma intanto Mosca lancia dei segnali di disponibilità a trattare a Joe Biden, come a dire che è meglio fare un accordo adesso perché da gennaio 2025 le condizioni saranno peggiori. Quanto sia un bluff è da vedere: è vero che gli accordi di assistenza a Kiev firmati a livello bilaterale e nell’ambito Nato sono difficili da cancellare con una sola firma, ma considerando anche l’esito delle elezioni francesi, Putin probabilmente spera di avere tra qualche mese interlocutori come minimo più vicini alle posizioni di Orban.
Il problema del Cremlino è però il tempo. Altri sei mesi, forse un anno, potrebbe essere un tempo ragionevole per la diplomazia, ma non per la guerra. L’offensiva russa a Kharkiv sembra essere naufragata, e quella in corso nel Donbass – considerata da molti esperti militari come abbastanza ambiziosa da poter strappare all’Ucraina altre città, come Toretsk e Chasiv Yar – sta costando un prezzo elevatissimo. Secondo Mediazzona, la testata dissidente russa, il numero dei militari russi caduti continua a crescere, e nelle ultime settimane la media giornaliera si aggira sui 250 uomini, più del doppio dei 120 di fine 2023. L’ultima avanzata nel Donbass sarebbe già costata più dei 21 mila uomini sacrificati dal comando di Putin a Bakhmut e Soledar. Dall’inizio dell’anno l’esercito russo ha già perso 39 mila uomini, portando il conto totale ad almeno 120 mila perdite.
In una guerra di resistenza, come quella che è diventata ora l’invasione russa dell’Ucraina, il tempo diventa dunque cruciale: chi riesce a durare di più vince. Finora Putin ha potuto contare sulle sue risorse, materiali e umane, ma è molto probabile che non riuscirà ancora a lungo a colmare i ranghi del suo esercito con i volontari, i cui salari continuano ad aumentare di mese in mese perché il bacino delle potenziali reclute disposte a morire per qualche migliaio di euro andrà inevitabilmente a restringersi. E una nuova mobilitazione farebbe vacillare il fragile consenso creato intorno a una guerra che sta arricchendo – per ora – i russi che vanno al fronte o nelle fabbriche militari, e riempiendo di orgoglio quelli che la guardano sulle tv della propaganda. Un segnale di allarme in questo senso arriva anche dall’ultimo sondaggio del Levada Center, che – con tutte le ovvie perplessità sull’affidabilità della sociologia in una dittatura – registra un ulteriore aumento dei russi che sostengono l’idea di un negoziato, arrivati ormai al 58%. Cosa intendono per negoziato e a quali compromessi siano disposti a scendere è un altro discorso. Intanto la testata Meduza rivela che ai media fedeli al Cremlino è giunta indicazione di insistere sulla tesi che «l’iniziativa di pace russa potrebbe chiudere rapidamente il conflitto», e che è colpa dell’Ucraina e dell’Occidente se si continuerà a combattere.