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Gli scaffali della libreria Poppelauer, fondata da Moritz Poppelauer al 59 della Neue Friedrichstrasse di Berlino nei primi anni del secolo scorso, erano una miniera per chi amasse la filosofia esoterica, gli antichi testi ebraici, i rari testi della Qabbalah cristiana. «Tra i sedici e i vent’anni, durante la prima guerra mondiale — racconta Saverio Campanini in una dotta postfazione (che certamente avrebbe entusiasmato Umberto Eco) ai tre saggi di Gershom Scholem contenuti in Cabbalisti cristiani (Adelphi) — Scholem fu assiduo frequentatore di quella e altre librerie, soprattutto ebraiche nella capitale del Reich». Qui, scoprì il singolare volume di un cabbalista tedesco: il massone Franz Joseph Molitor, vissuto fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, intitolato Filosofia della storia o sulla tradizione e ne rimase affascinato. Fu una iniziazione: dalla quale partì il cammino che, della Qabbalah, lo fece diventare uno dei massimi esperti mondiali.
Perché si può parlare, storicamente, di una Qabbalah cristiana? «Come è arrivata la Qabbalah — si domanda Scholem nel terzo dei suoi saggi — al di fuori della tradizione strettamente ebraica?». Occorre fare un passo indietro: «Allo shock provocato nel mondo degli intellettuali e umanisti cristiani, quando, alla fine del 1486, il neoplatonico italiano, conte Pico della Mirandola — un enfant prodige nella Firenze medicea dell’epoca — invitò tutti i dotti a recarsi a Roma per disputare con lui intorno a 900 tesi che aveva pubblicato, sempre a Roma, nell’autunno del 1486».
Possiamo immaginare, anche con nostalgico stupore, considerato il livello delle attuali dispute religiose, il consesso degli studiosi (cardinali, teologi cattolici, rabbini) e le aule vaticane nelle quali si svolse. E quanto dovesse sembrare eccitante, se non addirittura scandalosa per i cattolici, una tesi in particolare, secondo la quale «nessuna scienza può persuaderci della divinità di Cristo [ossia della dottrina della Trinità e dell’Incarnazione] più efficacemente della magia e della Qabbalah». Erano parole sconvolgenti: volete convincervi che Dio è uno e trino e che il Figlio, in comunione con lo Spirito, era un uomo come tutti gli altri? Leggete la Qabbalah.
Quest’affermazione che Pico della Mirandola traeva dalla profonda conoscenza della Qabbalah fornitagli dalla traduzione in latino dei testi cabbalistici fatta da un ebreo siciliano convertito, figlio del rabbino di Agrigento, che da cattolico prese il nome di Guglielmo Moncada, ma preferiva firmarsi Flavio Mitridate, era ampiamente diffusa nell’ambiente degli umanisti di orientamento platonico e in quelli contemporanei tedeschi, come Johannes Reuchlin, per il quale fu fondamentale l’incontro con Pico avvenuto a Firenze nel 1490: era legata alla ricerca di una tradizione primordiale comune a tutte le grandi religioni. Insomma: un’unica verità, declinata in diverse forme. Benché questa cerchia di studiosi si mantenesse rigorosamente all’interno della Chiesa, essa — scrive Scholem — tentava di guardare oltre i suoi confini. Il loro pensiero li portava a presupporre un fondamento comune a tutti i miti e i simboli delle religioni, che era possibile svelare ricorrendo alla interpretazione simbolica».
L’ipotesi, sostenuta da Pico della Mirandola, che i cabbalisti fossero testimoni in parte precristiani e in parte inconsapevoli delle verità del cristianesimo, accolta con comprensibile diffidenza negli ambienti ecclesiastici, non mancò di seguaci, come ad esempio il cardinale Egidio da Viterbo (1465-1532) che conosceva benissimo l’ebraico (mentre un secolo più tardi il cardinale milanese Carlo Borromeo l’avrebbe decisamente sconfessata).
Nel campo opposto, i cabbalisti ebrei mostrarono scarso entusiasmo, se non addirittura disprezzo. Scholem, arrivato alla Qabbalah attraverso la mediazione di Molitor, il massone romantico che, come abbiamo visto, interpretava la dottrina mistica ebraica in senso cristiano, era convintamente sionista. Doveva, dunque, minimizzare ogni commistione col cristianesimo, dimostrare che la Qabbalah era un fenomeno puramente ebraico, «perché — torniamo alla postfazione di Campanini — si qualificasse come una dottrina degna di occupare un posto di rilievo nello studio della storia ebraica e nell’accompagnare il popolo ebraico verso la sua rinascita nella terra promessa ai padri». E, a questo compito, dedicò strenuamente la vita e gran parte delle sue energie intellettuali.
Ma la Qabbalah è comunque uno specchio. «Chiunque entri in contatto con essa — scrive ancora Saverio Campanini — si sente rafforzato nella propria identità». L’idea, grandiosa, che sta alla base della creazione nella Qabbalah, questo lo spiega Scholem, «è preceduta da un atto di concentrazione e contrazione di Dio in sé stesso. Dio deve ritirarsi in sé per poter dare origine da sé stesso a una creazione, dalla quale la sua sostanza è scomparsa ma, nel vuoto che si è generato, se ne conserva una traccia». Difficile che un essere umano — ebreo, cristiano, musulmano, buddhista, zoroastriano, finanche ateo — non senta l’esigenza di cercarla.
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