In principio fu il trailer. Di carta. Dipinto, stampato e affisso sui cartelloni delle città. Il manifesto dipinto di “qualità artistica” nasce nella seconda metà dell’Ottocento, grazie a Jules Chéret e a Henri de Toulouse-Lautrec, principalmente per raffigurare e diffondere spettacoli, eventi circensi e opere teatrali. Con l’avvento del cinematografo si arriva all’arte di uno dei padri del manifesto moderno: Leopoldo Metlicovitz, con l’iconica rappresentazione pittorica, nel 1914, del lungometraggio Cabiria di Gabriele D’Annunzio.
Ma l’innesco e il sodalizio tra pittura, cinema e la sua estensione divulgativa, il “cartellonismo”, arriva nel secondo dopoguerra, quando l’industria cinematografica italiana, che poggia su Cinecittà questo rinascimento, comincia a divenire prolifica e, grazie a iniezioni economiche d’oltreoceano, a meritarsi l’appellativo di Hollywood sul Tevere. È un’arte industriale, la cartellonistica, che trasferisce i sogni e le pulsioni collettive in anteprima: dalla celluloide alla cellulosa e fonde diversi modelli di comunicazione visiva, intrecciando linee grafiche e tecniche pittoriche, figurazioni funzionali, ritrattistica, caricatura e messaggi verbali.
Esposta nelle sale del nuovo Palazzo Merulana fino all’8 di dicembre, la mostra «Roma nel cinema a pennello», come esplicita bene anche il sottotitolo, mette sotto i riflettori i bozzetti pittorici dei manifesti cinematografici, da Roma Città aperta a La voce della Luna, pensata e organizzata dall’incontro di due collezionisti di “cimeli” cinematografici e appassionati di quest’arte, Stefano Di Tommaso e Paolo Marinozzi che prelevano le opere in mostra dal museo inventato da quest’ultimo, “Cinema a pennello” (che ha sede a Montecosaro in provincia di Macerata) e scelgono di esporre, per la prima volta al pubblico romano, gli originali accanto ad alcune locandine stampate. Questi lavori sono sempre stati definiti da critici, addetti ai lavori, committenti, piuttosto che dagli stessi artisti, come “bozzetti”, quasi sottostimandone il valore, quanto invece sono veri e propri quadri, opere compiute, invenzioni iconografiche, tanto da essere in alcuni casi paradigmatiche e svincolate dal “prodotto” che hanno sintetizzato per divenire poster pubblicitario.
Una sorta di prolungamento estetico di stile: il marketing del film come un’opera d’arte grafica, un linguaggio a sé stante, dove a colpi di tempera su cartone, acrilico e a volte olio su tela o legno, si immaginavano mondi tra cui il melodramma, l’avventura, la guerra, la fantascienza, l’horror, con un linguaggio di sintesi saturo di colori e invenzioni semiotiche. Ad esempio il lettering dei titoli era quasi sempre disegnato a pennello o con i trasferelli Letraset o R41, per velocizzare i tempi, oltre che per questioni economiche e ovviare così all’uso dei font in tipografia, quando la stampa era ancora fatta da set di caratteri e impressa a piombo con processi di lavorazione più lunghi, ma necessità virtù, era foriera di originali ideazioni su titoli, composizione e paratesti che avrebbero caratterizzato quel film.
Circoscritto a una parte delle pellicole che hanno contraddistinto il binomio tra Roma e il cinema, si può ammirare, nella sala posta al secondo piano dell’edificio della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, dallo schizzo preparatorio a tempera su carta di Giorgio Olivetti per Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (tratto da Quer pasticciaccio brutto di via Merulana), all’olio su tavola di Giuliano Geleng per Roma di Fellini, passando per Il Conformista di Bertolucci realizzato da Ermanno Iaia con tempera e retini trasferibili su carta, ad Accattone di Pasolini eseguito a tempera su carta dal prolifico Symeoni, fino a Un sacco bello di Carlo Verdone per il collage e tempera su cartoncino a opera di Renato Casaro. Ma in mostra ci sono tanti artisti per altrettante opere come Ballester, Capitani, Brini, De Seta, Olivetti, Cesselon, Ciriello, Nistri, Putzu, Biffignandi, Gasparri, Sciotti, Tarantelli, Crovato, Innocenti, De Berardinis, Renato Guttuso e Milo Manara,
«Molti spettatori hanno imparato a sognare di fronte a un manifesto cinematografico ancor prima di vedere la pellicola in sala» dichiarano i due curatori, «i film non cominciavano sugli schermi delle sale ma sui cartelloni nelle strade», negli enormi ventiquattro fogli apposti per le città o incorniciati nelle vetrine fuori dai cinema. Tutto questo fino alla metà degli anni 80 quando le scelte di comunicazione dettate dall’avvento delle nuove tecnologie, dalle ridotte risorse economiche e dalle tempistiche sempre più strette, hanno dirottato su altri mezzi la comunicazione pubblicitaria e il cinema dipinto è stato archiviato, “musealizzato”. La propaganda cinematografica ha perso un pezzo della sua funzione immaginifica e di meraviglia legata all’illustrazione; si è servita di questa arte per decenni attraverso la diffusione di “immagini di sintesi”, che sono divenute un vero e proprio movimento artistico, cristallizzato nel tempo, ma purtroppo ancora privo di carta d’identità.