Dan Flavin: Kornblee Gallery 1967
8 Gennaio 2023Al nuovo mercato dell’arte
8 Gennaio 2023di Marco Rizzi
La scomparsa di Joseph Ratzinger, che fu Pontefice della Chiesa cattolica con il nome di Benedetto XVI, ha ravvivato l’interesse per il gesto, e soprattutto per le conseguenze, della sua rinuncia comunicata l’11 febbraio 2013 e divenuta effettiva l’ultimo giorno di quello stesso mese.
Tra i maggiori studiosi del diritto canonico, Carlo Fantappiè aveva subito osservato: «È evidente che la rinuncia di Benedetto XVI ha posto gravi problemi sulla costituzione della Chiesa, sulla natura del primato del Papa nonché sull’ambito ed estensione dei suoi poteri dopo la cessazione dell’ufficio». Se non sono mancati i contributi che hanno affrontato simili questioni dal punto di vista ora storico, ora dottrinale e soprattutto canonistico, da allora non si era concretizzata alcuna occasione di confronto tra studiosi che facesse interloquire prospettive disciplinari così diverse tra loro. La lacuna è stata colmata, almeno nel panorama della ricerca italiana, con il convegno tenutosi all’Università dell’Aquila nel dicembre del 2021, i cui atti vengono ora pubblicati a un anno esatto di distanza a cura di Amedeo Feniello e Mario Prignano presso Viella, con il titolo Papa, non più papa, senza immaginare che l’uscita del volume avrebbe coinciso con la scomparsa del protagonista di quel gesto.
La scelta del capoluogo dell’Abruzzo come sede dell’incontro non è stata certo casuale: a L’Aquila, infatti, risulta legata in modo particolare la memoria di Pietro del Morrone, per breve tempo papa Celestino V, di cui tutti abbiamo appreso sui banchi di scuola «che fece per viltade il gran rifiuto» (di che «viltade» si trattasse, però, è ben chiarito da Paolo Golinelli nelle pagine del volume: il termine indicherebbe la bassa estrazione sociale di Pietro, che perciò non sarebbe stato all’altezza di un simile incarico agli occhi di Dante, esponente di una famiglia di nobile ascendenza) e che si è generalmente portati a credere sia stato l’unico precedente del gesto di Benedetto. In realtà, nel corso dei primi mille anni della storia della Chiesa non sono mancati altri casi di rinuncia alla carica da parte del vescovo di Roma, titolo che — non va dimenticato — rappresenta il carattere costitutivo della carica pontificia. Già papa Ponziano, eletto nel 230, potrebbe avere compiuto una simile scelta qualche anno dopo, quando fu deportato in Sardegna ai lavori forzati da parte delle autorità imperiali; anche papa Silverio venne allontanato nel 537 da Roma e dalla carica; a mandarlo in esilio, questa volta, fu un governante cristiano, il generale bizantino Belisario, che lo accusò di connivenza con i Goti e fece nominare al suo posto Vigilio. Poco più di un secolo dopo, stessa sorte toccò a Martino, eletto vescovo di Roma nel 649 e mandato in esilio dalle autorità bizantine per le posizioni da lui assunte nelle complicate dispute cristologiche che all’epoca travagliavano il mondo cristiano; nel suo caso, la sua rinuncia è storicamente certa, perché il successore Eugenio I venne eletto nel 654 prima della morte di Martino, avvenuta l’anno successivo a Cherson in Crimea (l’attuale Sebastopoli).
Per costoro però — chiarisce Roberto Rusconi — la rinuncia fu conseguenza dell’allontanamento forzato dalla sede episcopale e in quanto tale non certo una loro libera scelta. Più oscure risultano le vicende relative alle elezioni e deposizioni papali nel corso dell’XI secolo, periodo assai travagliato per la Chiesa a motivo delle lotte tra le famiglie nobiliari romane per l’elezione di un proprio rappresentate al soglio di Pietro. Solo l’intervento degli imperatori germanici mise termine al caos e permise finalmente che la scelta del nuovo Papa fosse riservata al conclave, sebbene anche in questa situazione non tardarono a riprodursi le medesime dinamiche, in particolare il persistente conflitto tra le famiglie degli Orsini e dei Colonna. È il caso del conclave da cui uscì eletto lo stesso Celestino V, dopo un interminabile stallo durato oltre due anni, cui pose fine solo l’irrituale intervento del re di Napoli Carlo II d’Angiò, che di fatto impose la nomina dell’eremita Pietro del Morrone, incoronato Papa nella cattedrale dell’Aquila il 29 agosto 1294. Questi, peraltro, non prese mai possesso della sede romana. Praticamente sequestrato a Napoli dal sovrano angioino, Celestino comunicò la sua rinuncia il 13 dicembre di quello stesso anno ai cardinali che lo avevano raggiunto per riunirsi in concistoro. Prima, però, aveva ribadito solennemente la validità della costituzione Ubi periculum, emanata nel 1274 da Gregorio X, che stabiliva le regole del conclave per l’elezione del pontefice, in modo da sottrarla ai condizionamenti esterni, di Carlo II soprattutto.
Allo stesso modo, Celestino espresse la propria rinuncia sotto forma di un decreto emesso mentre era ancora in carica (e quindi anch’esso con valore solenne): si applicavano al caso specifico del vescovo di Roma le tre motivazioni che Innocenzo III nel 1206 aveva indicato per giustificare le dimissioni dei vescovi: debilitas corporis, defectus scientiae, zelus melioris vitae, vale a dire malattia, perdita delle facoltà cognitive, desiderio di uno stato di vita spiritualmente preferibile.
Si veniva consolidando così una disciplina canonistica, avviatasi nel corso del XII secolo, che aveva posto in rilievo anzitutto come la rinuncia dovesse avvenire sulla base di una libera scelta, non di costrizioni esterne. Essa venne messa alla prova nel corso del cosiddetto «Grande scisma d’Occidente» che per quarant’anni, dal 1378 al 1418, vide sulla scena dapprima due, poi addirittura tre pontefici. Fu solo durante il Concilio di Costanza (1414-1418) che due dei tre contendenti rinunciarono, più o meno spontaneamente, alla carica, mentre il terzo fu deposto d’autorità. Come osserva Johannes Grohe, è questo il periodo in cui la canonistica ha maggiormente preso in considerazione le condizioni per la legittimità di una elezione papale e, corrispettivamente, di una rinuncia, senza però giungere, né allora né oggi, a una definizione più specifica di quest’ultimo caso e delle sue conseguenze per il rinunciatario.
L’attuale codice di diritto canonico, emanato nel 1983, stabilisce solo che «la rinuncia sia fatta liberamente e venga debitamente manifestata» — dal che derivano le più fantasiose argomentazioni per sostenere la non validità della decisione di Benedetto XVI. Ciò non ha però impedito che nel corso dei secoli successivi al «Grande scisma» il tema tornasse d’attualità. Sembra che Pio XII (Papa dal 1939 al 1958) ne abbia preso in considerazione la possibilità, perché temeva di essere rapito da Hitler, e prima di lui forse anche Pio VII (1800-1823), alle prese con Napoleone. Al contrario, il timore dell’impatto che una simile decisione avrebbe potuto avere sui fedeli sembra avere trattenuto Paolo VI dal compiere il passo, nel momento in cui la malattia lo aveva ormai debilitato.
Non è un caso che, comunicando la propria rinuncia, Benedetto XVI abbia utilizzato le medesime parole (Ingravescentem aetatem: «l’avanzare dell’età») del decreto motu proprio con cui Paolo VI stabiliva in 75 anni il limite d’età dei cardinali in servizio presso la Curia romana. Si è così aperta una stagione talmente inedita da essere definita «traumatica» nelle pagine conclusive di Massimo Franco, le cui acute osservazioni acquistano ancora più valore dopo la scomparsa di Joseph Ratzinger.
https://www.corriere.it/la-lettura/