Julien Green, in una sorprendente veste da flâneur, ci racconta le sue passeggiate parigine. Tra luoghi amati e detestati
di Bruno Quaranta
È immaginabile Julien Green flâneur lungo la Senna? Lui che « nel suo bell’appartamento quieto e imbottito di tappetti morbidi, gonfio di poltrone comode e cuscini a peonie – così lo ritrasse Alberto Arbasino – siede soffice e pingue in doppiopetto marrone a tanti bottoni tutti allacciati, e pantofoline…»?
Eppur si muove, Julien Green, ammesso, dopo Beckett, all’Académie Française anche se non di nazionalità francese, americani i genitori. Passo dopo passo scoprendosi piéton de Paris come Léon-Paul Fargue, via via inanellando «immense passeggiate»… Parigi è l’acquerellata guida sentimentale di Green. Geograficamente lontano dalla provincia, il mondo delle sue opere maggiori, da Leviatan ad Adrienne Mesurat, aMezzanotte: « Vi è qualcosa di terribile in questa esistenza di provincia, dove tutto pare immutato… » . Ma infine la distanza fra la ville Lumière e il villaggio che ruota intorno al campanile di Proust o alla chiatta di Simenon o al castello di Chateaubriand è solo apparente se Barbey d’Aurevilly proclamerà: « Questa città di provincia che è Parigi».
Negli anni Cinquanta, quando riceve la visita di Arbasino e di Piovene («Veste piuttosto all’inglese che alla francese, senza contrasti di colore »), Julien Green vive nella Rive Gauche, in rue de Varenne, un appartamento all’ultimo piano. Da cui scende per raggiungere, quando non vuole solcare la Senna, capace di «una collera regale», «la meravigliosa città di provincia che si estende dalle cancellate del Luxembourg fino al pont des Saint-Peres, dominata dal campanile di Saint-Germain des Prés e dalle torri di Saint-Sulpice…».
La guerra separa Julien Green da Parigi. Nel luglio 1940 si imbarca per gli Stati Uniti, viaggiando con Jules Romains, Pierre Lazareff, l’imperatrice Zita, Elsa Schiaparelli. Oltreoceano, dove curerà Voice of Americacon André Breton, coltiverà quasi ossessivamente il pensiero della capitale francese: «La ricostruivo dentro di me e alla sua presenza fisica sostituivo un’altra cosa, quasi soprannaturale, che non saprei come chiamare ». Forse specchiandosi in Proust: «La vita reale, che è mentale».
Finito il conflitto mondiale, tornato a Parigi, Green riprenderà la suapromenade da Notre Dame. A togliergli il respiro, « nel braccio sud del transetto, alta e nuda e di una semplicità sconvolgente, si ergeva la croce di legno dedicata ai morti di Buchenwald. Era lì che aspettava e guardava come solo le cose sanno aspettare e guardare » . Una visione che ispirerà la profezia diMezzanotte: « … mostrando il segno che il Crocifisso aveva lasciato sul muro, disse: “Questa casa durerà sino a quando sul muro durerà il segno di questo Crocifisso”».
Green si era convertito dal protestantesimo al cattolicesimo sedicenne, morta la madre, folgorato da un libro del cardinale Gibbons ( « … ce libre qui m’a rendu catholique à jamais » ). Cattolico formalmente, ma cristiano per vocazione («diventando cristiano, cesso di essere cattolico » ). Una dimensionenon angusta, che consentì alla sua omosessualità, ancorché problematicamente, di “essere”, di evitare le fiamme.
Julien Green, lui così avverso al puritanesimo, “erediterà” il seggio 22 dell’Académie Française dal “giansenista” Mauriac. Si sarebbero potuti incontrare all’alba o quasi. Per l’autore di Groviglio di vipereun memento apocalittico: « … nel più assoluto silenzio (quando alle quattro del mattino Parigi assomiglia alla fine dei tempi»). Per il nostro écrivain l’ora di «una passeggiata impossibile», nel ricordo di ciò che inesorabilmente fu: «Nelle insonnie dell’alba – si è a Passy, il quartiere di Balzac – mi salta il ticchio di andare, come un tempo, a portare dei libri al mio rilegatore, che abita non lontano da rue Raynouard, esito tra rue de l’Annonciation e rue Jean-Bologne, ma alla fine scelgo quasi sempre quest’ultima per via del deposito di carbone, la cui disumana bellezza ha il fascino terrificante di un paesaggio lunare”» Parigi che per Julien Green si rivela «con un incantevole trucco da prestigiatore » , migrando « in maniera impercettibile dalla carne allo spirito » . Via via purificandosi. Perché «detesto il boulevard, in cui avverto la presenza di una noia quasi soprannaturale», e le «Tuileries disonorate dalle giostre, dai trenini per i bambini, da un grande chalet bavarese » , e « le viscere che il Beaubourg ostenta con la soddisfazione idiota di un bambinetto che mostra la pancia…». Ma mai abdicando: « Comunque sia, rimarrò sempre al mio posto invisibile».
C’è un’epigrafe ideale per Parigi, per l’esercizio di ammirazione che è. Custodita nella Pelle di Malaparte, là dove il colonnello americano Jack, connazionale di Green, che mai assunse la nazionalità francese, che dall’Académie si dimise, non esita a proclamare l’Europa la « banlieue de Paris».