Non era scontato che la Rapsodia in Blu di George Gershwin (al secolo Jacob Bruskin Gershowitz) potesse guadagnare il consenso del pubblico e della critica, né tantomeno che potesse riscuotere un successo planetario. Seppure il jazz fosse nato da poco (si data nell’anno 1918 la registrazione della prima testimonianza su disco ad opera del cornettista italoamericano Nick La Rocca) e risultasse sempre più popolare negli Stati Uniti, le musiche dell’epoca camminavano su binari che poco si incontravano.
Ci volle un ebreo di origine ucraina e lituana ad abbattere le barriere componendo una partitura spessa e allo stesso tempo trasparente intessuta con nuovi suoni e melodie meticciate tra retaggi classici, ispirazioni blues e riferimenti alla cultura nera di New Orleans. Fu il suo collocarsi naturalmente tra le musiche a suggerirgli un’opera capace di fotografare i dinamici e bulimici ritmi metropolitani della New York degli anni ruggenti tra benessere e flapper girls, ragtime e giovane jazz al quale proprio lui, bianco e immigrato, diede volto e voce nella società americana della espansione economica successiva alla Grande Guerra e delle ingiustizie sociali. Non stupisce pertanto il fascino che Gershwin e la sua rapsodia ebbero su grandi compositori classici come Stravinsky, Rachmaninov e Ravel al punto che, quest’ultimo, si rifiutò di dargli lezioni con la frase «per qua le motivo dovresti essere un Ravel di seconda categoria quando sei già un Gershwin di prima?».
Ma se l’opera (poco più di sedici minuti) è un caposaldo della musica del Novecento per invenzione melodica e capacità immaginifica, non ha in realtà contribuito, come invece è stato con molte altre sue composizioni, ad alimentare il repertorio jazzistico. I temi che si susseguono e si intersecano sono infatti volutamente abbozzi quasi cinematografici che fermano in un fotogramma il cammino dell’America del tempo e che risultano dunque intenzionalmente transitori come il tempo stesso. Melodie il cui impianto deborda dalla “forma canzone” classica cara al compositore che prestò la sua luminosa invenzione al ragtime e al musical di Broadway e dalla quale infinita libreria il jazz ha raccolto a piene mani.
A differenza di altre sue opere nella Rapsodia mancano le voci che, grazie allo sviluppo testuale, offrono materiale diatonico da interpretare con cantanti e solisti dai quali noi strumentisti abbiamo appreso le melodie scritte non solo da Gershwin ma anche da Henry Mancini, Cole Porter, Victor Young e Jerome Kern. Pensiamo ad esempio alla celebre A Foggy Day (sempre di George Gershwin) con il suo “verse” che descrive e anticipa un amore improvviso in una nebbiosa giornata londinese. Il jazz in quanto musica popolare per antonomasia si è sempre lasciato ispirare da storie umane che, a loro volta, alimentano una emozionalità fatta di suono proveniente dall’anima. Che questo transiti attraverso una voce umana o uno strumento poco importa. È il trombettista Wynton Marsalis a narrare di un vecchio sassofonista che, nel momento più intenso del suo assolo, si fermò durante l’esecuzione di una romantica ballata. Alla domanda del perché rispose «non mi ricordavo più le parole della canzone».
Non stupisce pertanto che sia piuttosto il melodramma moderno Porgy and Bess, il cui libretto è scritto da Ira Gershwin (fratello di George) e DuBose Heyward, ad avere dato in dote ai jazzisti melodie scolpite nella storia come Summertime e I Loves You, Porgy.
Pensiamo alla Porgy and Bess di Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald e a quella di Miles Davis arrangiata mirabilmente da Gil Evans. Stessi brani registrati a due anni di distanza ma con visioni interpretative e tessiture sonore diverse a dimostrare la grandezza di Gershwin come compositore di canzoni ancor prima che come compositore sinfonico. Ma se Porgy and Bess, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa restano opere straordinarie è Rapsodia in Blu (magnifica la riproposizione disneyana con Fantasia 2000 e straniante la versione di Eumir Deodato contenuta nell’album Deodato 2 del 1973) ad avere impresso in un fermo immagine i roaring years dell’America dei primi anni del secolo scorso.
Attraverso un’arte descrittiva che rimanda, in tempi moderni e seppure nel suo diverso costrutto sonoro, al plurilinguismo di Brian Eno teorizzatore della “musica d’ambiente” con opere come Discreet Music, Music for Airports e Possible Music assieme al rimpianto (e troppo presto dimenticato) Jon Hassell.
Se il ruolo della musica è quello di scattare un ritratto contemporaneo Rapsodia in Blu risulta essere, ancora oggi a cento anni dalla nascita, una pellicola sensibile ai chiaroscuri del tempo che si modifica, in maniera incessante e impercettibile, assumendo nuove gradazioni in bianco e nero di una società in movimento. Poco importa ciò che ha donato al jazz. Il lascito interpretativo dello stesso Gershwin e dei grandi pianisti che la hanno eseguita in questi cento anni di vita consegnano alla storia un’opera che ha impreziosito la musica del Novecento.