Alessandro Chetta
Il borgo piace a tutti, e proprio lì sta l’inganno. Se è bello senza condizioni vuol dire che è stato confezionato, smussato, deodorato, per i palati estetici della massa, come un prodotto da banco. Una riduzione a bomboniera che forse sta snaturando la miriade di paesini italiani, montani e non, e che non convince affatto Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, curatori di «Contro i borghi — Il Belpaese che dimentica i paesi » (Donzelli editore), insieme agli oltre venti studiosi che hanno contribuito con singoli saggi a focalizzare il problema: indigesta è la nuova narrazione dei «borghi più belli», con relative classifiche nazionali e playlist, quasi un’entità a se stante rispetto alla vita del borgo stesso. Il Piemonte ha voce in capitolo. Le valli sono vivificate da micro-paesi plurisecolari, che come i loro gemelli appenninici o costieri subirebbero da decenni una «vetrinizzazione» che li spossessa della memoria e del sangue per riempirli di aria condizionata. È l’assalto delle classi più agiate al green extraurbano, arcadico e incontaminato (rural gentrification) o del mordi e fuggi del turismo meno attento.
Anche il Pnrr ha lasciato l’amaro in bocca. «La linea A del bando borghi — spiega l’architetto Antonio De Rossi (Politecnico di Torino) — ha destinato 20 milioni a una singola realtà per regione. In Piemonte è toccato a Elva, in Valle Maira. Ma la lotteria che premia solo il più fortunato scatena risentimento. Una logica perdente».
Di recente, la Provincia di Matera ha realizzato un divertente spot per dire, in sostanza: cari turisti, ci siamo anche noi, non solo la città dei Sassi. «I sindaci italiani ritengono che la tipicizzazione sia l’unica via, ma non è così — prosegue De Rossi —. Faccio l’esempio di Ostana, in Valle Po: vent’anni fa contava una manciata di residenti mentre oggi, puntando su progetti di rigenerazione, servizi e costruzione di un’economia locale, gli abitanti sono diventati una cinquantina. Tutti giovani. Lavorano la terra, operano nel turismo e nella produzione — non sul consumo — culturale. Lo Stato deve far proprio questo: creare le condizioni».
Secondo Arturo Lanzani, uno dei contributor del saggio, l’approccio attuale rende il comune rurale un presepe, una messinscena, degradandolo ad avamposto commerciale. Il borgo è un idillio che andrebbe a compensare sia il ceto medio impoverito e «orfano» della seconda casa, sia i radical chic ambientalisti e tecnofobici in fuga dalla metropoli: «Mollo tutto e vado a vivere in un trullo»; sì, ma solo se sei benestante.
Scopo del libro, ribadiscono gli autori, è, piuttosto, decostruire questa straordinarietà per un nuovo valore d’uso ordinario e quotidiano, a partire dalle parole: utilizzare «paese» e non borgo, per un «ripensamento del ri-paesamento», scrive Rossano Pazzagli. Questo perché borgo sarebbe un vocabolo stirato a dismisura dall’incessante attività di branding legata al pittoresco. Un processo accelerato dalla pandemia, che ha reso diabolico il sovraffollamento metropolitano. «Siamo ormai al borgo-merce, promesso a tutti ma fruito da pochi — afferma Domenico Cersosimo, economista all’Università della Calabria —. Un bene posizionale per un consumo vistoso, in un luogo senza abitanti. Eppure, lo spopolamento crea problemi alle città: se vanno via tutti, non si puliscono più i canali di scolo, non si alimenta la cotica erbosa, l’acqua non viene irreggimentata e non si producono più cibi tipici, autentici».
In un’intervista di pochi mesi fa, il cantante Giovanni Lindo Ferretti, che da anni abita sull’Appennino tosco-emiliano, s’è detto pessimista: «Nelle valli la comunità è molto spesso frantumata, a volte è una finzione, diventeremo un parco giochi»; la tradizione scalzata dall’incultura del leisure? «Mi auguro di no — continua Cersosimo — bisogna invertire lo sguardo: accanto al turismo va istituita una ”fabbrica delle carezze”, della manutenzione della comunità locale, favorendo l’integrazione, com’è avvenuto con gli immigrati a Riace».
C’è anche un altro l’aspetto, tutt’altro che secondario. Alla politica istituzionale non conviene puntare sui borghi. «Sono posti che non esprimono rappresentanti politici. Il quartiere torinese di Santa Rita pesa come l’intera area montana — asserisce il sociologo Filippo Barbera (Università di Torino) — Mettiamoci pure che le comunità montane sono state abolite per populismo, buttando il bambino con l’acqua sporca. E dire che svolgevano funzioni importanti, fungendo da enti intermedi di prossimità». Anche uno slogan come «Adottare il borgo» finisce per alimentare una narrazione miope? «Sì, perché di norma si adottano i bisognosi e senza tener conto delle loro scelte e desideri».
In più, ostacolo non da poco, la disillusione mista a conservatorismo dei residenti storici. «Si rema contro. Si resiste al cambiamento possibile, talvolta in malafede. Il poeta irpino Franco Arminio li chiama “guastatori di professione”».
Isolare i borghi dalla Storia facendone solo luoghi ameni significa anche annullarne il dolore. È un aspetto della società politicamente corretta e analgesica, di cui ha scritto il filosofo Byung-Chul Han: la retorica della Bellezza salvatrice del mondo porterà anche qualche turista col bastoncino da selfie ma indispone al brutto, cancellando il premio dell’autenticità, irriducibile a calcoli di marketing. L’antropologo Vito Teti ha scelto di restare e lasciar parlare la roccia dov’è nato: «Il paese muore ma vetrificarlo non è la soluzione».