A terra, sulle barelle, nelle body bag,nei sacchi. Corpi abbandonati su un pavimento di cui non si intuisce neanche più il colore, sporco com’è di sangue, fluidi, sabbia. Gettati via come cose, come immondizia, fino a riempire i corridoi, saturare le stanze, i depositi. Nell’obitorio dell’ospedale Bourguiba di Sfax non c’è più spazio neanche per il rispetto della morte.
Eccola l’altra faccia dei naufragi, quella che non si vede, né si immagina, sterilizzata dalla burocratica conta di vittime e dispersi. Numeri che nascondono persone, ridotte al rango di corpi maltrattati prima dal mare — che li gonfia, li trasforma, li spoglia persino della pelle — poi da chi li raccoglie. Residui. Le braccia lunghe di chi è stato trascinato prima dalle onde, poi da chi li ha accatastati come cose. I vestiti ancora zuppi. Niente lenzuola o teli, solo alghe o buste a fare da sudario.
Le immagini, arrivate agli attivisti di Mediterranea e che Repubblica ha verificato ed è in grado di mostrare, sono stata scattate tra il 26 e il 27 aprile scorso. Nel mondo arabo si festeggiava l’Eid, la fine del Ramadan. E in tanti, scommettendo su turni di sorveglianza ridotta, hanno approfittato per prendere il largo. Il Mediterraneo si è riempito di barchini di ferro — bare galleggianti, le chiamano — con prua a Nord, verso la Sicilia. Molti non sono mai arrivati. Nei giorni successivi il mare e il litorale di Sfax si sono riempiti di cadaveri.
«Due settimane fa o oggi la situazione non è diversa», dice dalla Tunisia Ludovica Gualandi, ricercatrice e attivista di “Mem.Med”, associazione che da anni lavora per restituire un nome e una storia a chi è rimasto impigliato nel Mediterraneo trasformato in tagliola. «Di recente, il procuratore di Sfax, Faouzi Masmoudi, ha dichiarato che da febbraio a oggi, solo in quella provincia, sono state seppellite 634 vittime di naufragio». Salme senza nome, cadaveri senza storia, a cui restituirla è quasi impossibile. Soprattutto se si tratta di migranti subsahariani.
“Habid”, “hatig”, “shushen”, schiavo, liberto, cammelliere. Ormai senza neanche troppo pudore in Tunisia in tanti li chiamano così e come tali li considerano. Da quando, il 21 febbraio scorso, il presidente Kais Saied ha pubblicamente bollato i migranti subsahariani «persone non grate» perché strumento di un «piano di sostituzione etnica», la vecchia legge che persegue chi non ha documenti validi e chi li aiuta, ha iniziato a essere applicata con severità e alla lettera. «Negli ultimi mesi ci sono stati attacchi di violenza inaudita, linciaggi, ronde, omicidi nella più totale impunità — commenta amaro Majdi Karbai, ex deputato oggi esule in Italia —. La polizia è troppo impegnata a perseguire sindaca-listi, giornalisti e oppositori politici ». I subsahariani, anche chi da tempo viveva in Tunisia, hanno improvvisamente perso casa, lavoro, i pochi diritti che avevano. Incluso quello di riconoscere i propri cari.
Walid ci prova da mesi. Da anni rifugiato a Sfax, dopo l’editto del 21 febbraio, ha smesso di sentirsi al sicuro. Con i pochi risparmi ha pagato la traversata per sé, la moglie e il figlio. Ma quando la Garde nationale si è avvicinata, il barchino su cui viaggiavano si è inabissato. È facile, basta un’onda abbastanza alta da superare la murata e quelle carrette vanno giù. Il bimbo se l’è preso il mare, della moglie è riuscito a recuperare solo il corpo. A Sfax, gli hanno intimato di lasciarlo sulla banchina. Da allora, non ha avuto più notizie.
I riconoscimenti, già impastoiati da una burocrazia complessa, da mesi sono bloccati. Perché qualcuno possa trovare un proprio caro fra i corpi restituiti dal Mediterraneo è necessario che venga convocato dalla polizia scientifica, alla presenza della Croce rossa, cui è delegato l’abbinamento di denunce di scomparsa e ritrovamenti. Ma chiamate non ne arrivano più. «A detta della Cri — spiegano da Mem. Med — è troppo alto il rischio che i familiari degli scomparsi vengano detenuti». Walid però non si rassegna. Sta pensando di rivolgersi a un avvocato, per la moglie e il figlio ha organizzato una veglia funebre. «È un gesto importante e coraggioso, in una Tunisia in cui i subsahariani iniziano ad avere paura anche di andare per strada».
Shushana invece si è stancata di lottare. Ha perso una figlia in mare e un’altra le è morta sotto gli occhi perché sulla motovedetta della Garde nationale che le ha intercettate non c’erano medici. Le ha salutate al porto di Sfax, da allora non ha più saputo nulla. Voleva solo sapere se e dove fossero state seppellite. A Sfax i cimiteri si moltiplicano, si progetta di costruirne di nuovi. Ma, corre voce fra i familiari degli scomparsi, a crescere sono anche le fosse comuni, le sepolture informali. Se ci sono. «Un pescatore ci raccontava di aver trovato un cadavere impigliato in una rete e di aver atteso per giorni istruzioni — spiegano da Mem. Med — Alla fine gli hanno detto di buttarlo via». Come una cosa, un residuo.