Niccolò Zancan
«Invitati?». All’inizio c’è un’incomprensione. Il signor Mohammeadha di Qasemi abbassa lo sguardo in un lampo di amarezza. «Sì, lo so. Tutti lo sappiamo bene. Il governo italiano non ci vuole qui. Nessuno di noi è stato invitato in questo Paese. Ma dovete capire che siamo dovuti partire lo stesso. Anche se lasciare la terra in cui sei nato è come andarsene da una madre. È la cosa più difficile da fare a questo mondo, ma abbiamo dovuto farla».
No, non intendevamo questo. Intendevamo un invito formale a Palazzo Chigi. E allora, proviamo a spiegare meglio: «La premier Giorgia Meloni ha annunciato che tutti i parenti delle vittime del naufragio saranno invitati a Roma per un incontro con lei». «Un invito dal governo italiano? Non ne sapevo niente», dice Mohammeadha di Qasemi.
Seduto su un muro davanti a questo palazzetto dello sport in disarmo, pieno di fiori che stanno sfiorendo e pieno ancora di 27 bare, sta scegliendo l’aereo per il ritorno in Germania. «Adesso è troppo tardi», dice senza rabbia. «Sono passati tredici giorni. Tredici giorni di confusione. Noi siamo sempre stati qui. Ieri il governo era in Calabria, ma la premier Meloni non l’abbiamo vista. Ora ognuno di noi ha troppe questioni da risolvere per potersi permettere un viaggio a Roma».
Per esempio, il signor Qasemi deve scegliere fra biglietti aerei con prezzi che oscillano da 178 a 260 euro. «Sono tanti soldi. Io vivo a Amburgo. Lavoro come postino. Per essere qui ho dovuto prendere due settimane di ferie, ma adesso devo tornare in servizio. Ieri sono riuscito a far partite la salma del piccolo Meysan su un furgone, arriverà in Germania dopo cinquanta ore di viaggio». Il piccolo Meysan Qasemi era nato il 12 dicembre 2005 a Herat, in Afganistan. La madre è morta di tumore al cervello quando lui aveva dieci anni, il padre faceva il poliziotto fino al ritorno dei talebani. Tutti i membri della famiglia Qasemi sono dovuti scappare in Iran per salvarsi la vita. «Ho qui, nel telefono, il video in cui mi dice che vuole partire. Che vuole raggiungermi per studiare a Amburgo. Non riesco più a guardarlo. Perché io gli ripeto: “Non partire, sei piccolo Meysan, il viaggio è molto pericoloso”. Ma lui insiste, insiste. A un certo punto, per sfida, gli domando: “E se dovessi morire?”. Lui risponde con un sorriso: “Lascio i giochi e i vestiti a mia sorella Maryan”». Qui lo zio si ferma un attimo per prendere fiato.
In quel momento, lì vicino, una giornalista delll’AdnKronos rivolge la stessa nostra domanda a un altro parente delle vittime del naufragio. Si chiama Alloudin Mohibzada, ha perso nel mare la zia e due cugine di 12 e 8 anni. Anche lui risponde allo stesso modo: «Non ci hanno detto nulla dell’invito a Roma dal governo italiano. A parte il presidente Mattarella, non abbiamo visto nessuno. Appena riceveremo l’autorizzazione per rimpatriare le salme, lasceremo l’Italia». Anche lo scrittore afghano Alidad Shiri, da giorni qui a Crotone per aiutare i parenti delle vittime, esprime la sua contrarietà: «È un invito che non ha alcun senso. Ormai è troppo tardi». Sono tutti stremati. Con i nervi a pezzi. Con un dolore nel cuore che nessuno può capire. Qualcuno è arrivato dall’Australia. Una signora da New York. Molti dall’Olanda, dalla Germania, dal Belgio, dall’Inghilterra. Ed è incredibile pensare a quelle 27 bare che ancora – dopo 13 giorni – sono sul campo di basket di questo palazzetto dello sport. La morte non ha un buon odore. «Non è giusto quello che ci avete fatto», dice Mohammeadha di Qasemi. «Io non so perché la barca sia affondata. Non so nemmeno perché non siano arrivati i soccorsi. Ma questi giorni non sono stati giorni giusti per noi, non sono stati giorni corretti. Nessuno ci ha aiutato. Tutte le persone qui stanno provando una fortissima sofferenza psicologica. Arriviamo al mattino, aspettiamo fino a sera per avere il permesso di rimpatriare le salme». Adesso passa un ragazzo che si dispera perché non riesce a farsi fare un foglio che attesti la sua presenza qui, alla camera mortuaria di questa tragedia italiana. «Il mio datore di lavoro mi ha detto che senza certificato rischio il licenziamento. Ma voi italiani mi avete detto che non potete darmi quel documento».
Questa strada, questo giardinetto, questa cancellata piena di disegni e di fotografie che già stanno cambiando colore, saranno per sempre saturi del dolore dei famigliari delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro. Non si era mia visto un lutto così prolungato e una solitudine tanto profonda di fronte all’incomprensibile burocrazia del mondo.
«È qui che doveva venire il governo italiano», dice Mohammeadha di Qasemi. È riuscito a ottenere i soldi per il trasferimento della salma, ma non quelli per il funerale. A questo sta pensando adesso il postino di Amburgo che fu migrante a sua volta, lo zio che ha perso un ragazzino pieno di gioia di vivere. «Il piccolo Meysan domenica 26 febbraio alle 4 del mattino ha mandato un messaggio a suo padre. Ha detto così: “Ci sono le luci. Siamo arrivati in Italia”. Doveva venire a studiare a Amburgo. È morto a 50 metri dalla salvezza».