Non tutti vissero quel 12 maggio allo stesso modo. Non solo il risultato del referendum a favore del divorzio fu straripante, quasi il 60% dei voti contro il 40%, ma fu forte il contributo di province fra le più bianche d’Italia, come Lucca ad esempio, e dello stesso Mezzogiorno, con la maggioranza delle regioni in equilibrio e la Sicilia largamente per il no all’abrogazione. Insomma, tutti capirono che si era aperta in Italia una nuova storia; una storia che si liberava delle vecchie regole e soprattutto delle vecchie gerarchie, in nome dell’assunzione da parte di ciascuno, e ciascuna, della responsabilità della propria vita.
Questo era il senso del cambiamento e io fui tra quelli che lo trovarono una cosa bellissima. Bellissima, però, non perché ciascuno potesse ora realizzare ogni e qualsiasi desiderio senza più incontrare vincoli, ma perché per il futuro i conti li avremmo dovuti fare con la nostra coscienza, trovando in essa (e non in comandi altrui) i doveri, oltre che i diritti, la responsabilità, oltre che la libertà, le proprie scelte, certo, ma anche le regole etiche che devono governarle. Una società, insomma, di uomini e donne finalmente maturi.
Altri, certo, non la videro così. Non la videro così i cattolici che si erano fortemente battuti per l’abrogazione, secondo i quali eravamo ormai sullo scivolo che ci avrebbe portato alla perdita di ogni freno (il che per il Fanfani della campagna referendaria significava che «ora vogliono il divorzio. Poi vorranno l’aborto, e poi ancora il matrimonio tra omosessuali, poi magari vostra moglie scapperà con la serva»). E non la vide così neppure Pasolini, che colse nella scomparsa delle lucciole, e cioè dei valori pur arcaici di patria, famiglia, moralità, obbedienza, il campo lasciato libero al capitalismo dei consumi, che ci avrebbe reso suoi schiavi, appagando ogni nostro desiderio materiale. Chi di noi aveva ragione?
A distanza di cinquanta anni io non abbandono la mia lettura, che coincideva con l’aspirazione ad un mondo nel quale l’autonomia fosse più e meglio dell’eteronomia nel farci vivere in società, non di soprusi e ipocrisie, ma di sentimenti e di valori etici davvero condivisi. Ma è questa la società che abbiamo costruito? I timori dei cattolici intransigenti, le stesse profezie di Pasolini non trovano riscontro nella società liquida in cui siamo caduti, nella egolatria che in essa ha preso il sopravvento, nel disconoscimento dell’altro che tanto ci fa paura quando ne vediamo gli effetti, oltre che in noi adulti, nei comportamenti di tantissimi giovani?
Le persone, le famiglie, le comunità che inverano la mia aspirazione esistono e testimoniano che questo non era un sogno impossibile. E tuttavia sento la forza del monito dei cattolici che non si opposero al divorzio: ci vorrà ora un forte lavoro culturale ed educativo, che ci attrezzi tutti a non perdere la bussola delle nostre responsabilità, in modo da rinsaldare dall’interno, anche con l’esempio, l’istituto matrimoniale e familiare. Così scrisse l’«Avvenire» il giorno dopo e così si leggeva ancor prima del voto in un appello promosso da Pietro Scoppola e firmato da decine di intellettuali, fra i quali Pierre Carniti, Leopoldo Elia, Romano Prodi, tutti contrari al no al divorzio.
Sia chiaro, diversamente dal Fanfani di allora non penso proprio che fossero poi la legge sull’aborto e quella sulle unioni civili a testimoniare l’inadeguatezza morale della nuova stagione. Quelle, anzi, furono conquiste non meno importanti del divorzio nel percorso verso la giusta autonomia di ogni persona. E il loro equilibrio fu non meno significativo delle loro novità.
Ciò in cui abbiamo fallito è stata la mancanza della diffusa tensione morale che avrebbe dovuto accompagnare il radicamento della nuova stagione. I partiti laici si sono limitati ad assecondare la conquista di nuovi diritti individuali, senza molto preoccuparsi di far maturare le responsabilità necessarie al loro esercizio. Pensiamo all’aborto e all’importanza che avrebbero avuto per tante donne il supporto psicologico che la legge affidava ai consultori. È stata mai, questa, una priorità dei fautori dei diritti (mentre lo è stata per altri, che stanno ora riempiendo il vuoto a modo loro)? E il mondo dei credenti ha fatto davvero ciò che l’«Avvenire» di cinquant’anni fa proponeva o si è ricordato dei propri principi quasi esclusivamente quando si trattava di contrapporli ad altri nelle controversie sulle modalità della nascita e della morte, lasciando correre tutto ciò che riguardava il resto della vita? I nostri giovani sono privi di educazione sessuale, che li aiuti a gestire la parità di genere. Né ricevono un’educazione etica che li aiuti ad affrontare le responsabilità della famiglia, dalle quali infatti semplicemente rifuggono.
Una società libera – ci ha spiegato il grande filosofo e giurista tedesco Bockenforde – non può affidare alla coercizione giuridica quella regolazione delle libertà che in essa può venire solo dall’interno, a partire dalla sostanza morale dei singoli. Ma se così non sarà, non riuscirà a vivere. Ricordiamocelo in questo anniversario.