Jorge Eduardo Eielson: The Vertical Knot
1 Novembre 2022Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento
1 Novembre 2022Io non sono una pioniera del femminismo. Innanzitutto per ragioni generazionali, visto che appartengo a quella maturata nel dopoguerra, quando la promessa dell’emancipazione, e dunque della conquista di diritti uguali a quelli degli uomini, ci parve di già una bella prospettiva: non avevamo capito che quelli che servono a noi non sono gli stessi. Sono stata però una precoce recluta del nuovo femminismo che comparve sulla scena italiana intorno al ’68 – non figlia del movimento, ferocemente maschilista – e però accanto, perché ci aveva insegnato la ribellione.
Ebbi fortuna, perché a coinvolgermi fu il «femminismo della differenza», di cui tutt’ora rimango una fedele discepola. A convincermi fu Lia Cigarini, e fu più facile perché, sebbene parecchio più giovane di me, avevamo una provenienza analoga, la Fgci, di cui lei fu anzi la prima segretaria donna di una grande provincia, Milano; (la nostra antica comunanza ha fatto sì, non a caso, che il primo scritto femminista della rivista «il Manifesto», del 1969, fosse firmato da Lia).
FORTUNATA FUI anche per via di un precoce incontro con un’ altra importantissima esponente del nuovo movimento: Luisa Muraro, conosciuta a un dibattito sul divorzio alla biblioteca di Montevarchi, uno dei primi e per di più in una zona che come allora la Toscana, dominata dalle famiglie mezzadrili, all’argomento restava molto ostica. Quando mi dissero che ci sarebbe stata questa Muraro, docente della Università Cattolica, mi irritai: perché far parlare proprio l’avversario più duro su una questione già così difficile in quella zona? Luisa era giovane e incinta. Dopo poco ci trovammo, con mia sorpresa, sostanzialmente d’accordo. Tanto che l’indomani telefonai alla assai intelligente responsabile femminile della federazione Pci di Milano, Nora Fumagalli, per dirle: guarda che alla Cattolica c’è un gruppo molto interessante di donne, prendici contatto. Da allora non ci perdemmo più di vista, sempre più convergenti anche sulle questioni politiche generali.
Adesso molti degli scritti più antichi e parecchi nuovi di Lia Cigarini sono stati raccolti dalla casa editrice Orthotes in un libro – La politica del desiderio (pp. 374, euro 25) – curato da Riccardo Fanciullacci (c’è anche una sua bella intervista all’autrice) e da Stefania Ferrando che scrive la nota introduttiva.
Non tenterò nemmeno di riferire, e neppure di accennarvi, tutte le tematiche che il volume affronta, nemmeno al saggio assai intrigante sul rapporto con la psicoanalisi scritto da Ida Dominijanni nel ‘95 (era a introduzione della prima edizione de La politica del desiderio, per Pratiche editrice nel 1995, ndr) e qui ripubblicato. Scelgo un solo tema, il lavoro, del resto quello su cui Lia ha scritto le cose più interessanti, anche perché, cosa rara, ha continuato a partecipare assiduamente alla vita sindacale, portando nel dibattito delle lavoratrici, a cominciare dai primi collettivi femminili di fabbrica, la nuova consapevolezza: la contraddizione di genere. Aggiungerei anzi: il lavoro, come tema particolarmente segnato dalla differenza sessuale, un problema diventato anche più esplosivo da quando le donne sono massicciamente entrate nel mercato del lavoro.
E quando, proprio la conquista del diritto ad accedere a tutte le professioni, ha mostrato quanto grande, anzi drammatico, sia il peso di una società ancora patriarcale, che non ha nemmeno mai seriamente messo in discussione la divisione fra lavoro produttivo, per il mercato, e quello riproduttivo, non pagato né socializzato, pur essenziale per il mantenimento dell’umanità. E così è proprio in seguito a una conquista come l’accesso a tutte le carriere che, paradossalmente, le donne si sono ritrovate con un’identità ancora più appiattita su quella maschile, la differenza sessuale ancora una volta calpestata.
ALL’INIZIO si è forse pensato che sarebbe gradualmente venuta alla luce, via via automaticamente risolvendosi; e invece è accaduto il contrario. Le stesse lotte per l’occupazione, per la parità di retribuzione, quelle per il welfare – restato tutto centrato sulla figura del capofamiglia – non hanno fatto che rendere più evidente l’urgenza di prendere in conto la questione di genere e quindi la insuperata separazione fra lavoro per il mercato e il lavoro domestico di cura. E dunque la necessità di considerare a tutti gli effetti «lavoro» tutto quello che è necessario per vivere, non più concepibile come attività residuale, affidata alla benevolenza femminile. Con evidenti grosse conseguenze di carattere più generale di cui sarebbe obbligatorio prendere atto: che non è possibile pensare di modificare i rapporti sociali di produzione senza pensarli insieme a quelli di riproduzione, e dunque della necessità di rivedere leggi e comportamenti alla luce della differenza di genere che ne è alla base. È proprio a partire dal lavoro che più limpidamente appare l’imbroglio grazie al quale viene regolata la nostra società, che vengono scritte le sue leggi e plasmati i comportamenti. L’imbroglio di far credere che esista un cittadino neutro, quando quel neutro è tutto disegnato sull’identità maschile, contrabbandata come modello universalistico.
Per svelare l’imbroglio, le donne stanno prendendo la parola ma non senza esser confrontate con nuove minacce. Contro cui è urgente rispondere innanzitutto rinominando con le proprie parole quelle che ci sono state imposte dal maschio, quelle «ufficiali» del «femminismo di stato», che cerca di convincerci che quanto devono volere è conquistare un pezzetto di quanto hanno gli uomini. Sicché il tripudio di fierezza per aver conquistato una percentuale crescente di presenza nella magistratura, nella medicina, nella scienza, nella politica, in fabbrica, finisce per corrispondere, in realtà, con una maggiore oppressione: un doppio lavoro stressante che o costringe ad abbandonare o altrimenti a subire il disagio imposto dall’obbligo di rispettare regole che ci sono state cucite addosso dal sistema che della natura della donna non ha mai voluto prendere atto: a farci sentire menomate perché non capaci di rendere altrettanto se non a costo di enorme fatica e sacrificio, finanche ad obbligarci a rinunciare a diventare madri, di perdere un potere che pure in molte vorremo conservare. Costrette a perdere la felicità oltreché l’autonomia.
Nel momento in cui assistiamo al varo di un governo espresso da una maggioranza che come primo progetto di legge ha presentato quello che riconosce diritto di cittadinanza italiana al feto, ma non alla donna che lo porta nel grembo; e che lancia una campagna per incrementare la natalità pur senza fare nulla per renderla possibile a tutte le donne che lo desiderino, rischiamo di perdere anche il diritto pur con fatica conquistato, il diritto di decidere se avere figli o non averli.
COSTRETTE A SUBIRE la campagna già lanciata dal presidente Fontana intesa a far sentire le donne colpevoli dell’estinzione degli italiani, che, visto il tasso di natalità ridotto all’1,3%, potrebbe verificarsi in un tempo prevedibile. La minaccia di abolire il diritto all’aborto si accompagnerà sicuramente all’accusa alle donne di essere responsabili del crollo delle nascite. La battaglia per cambiare il nostro modo di vivere, per socializzare il lavoro di cura attrezzando servizi collettivi adeguati per bambini, vecchi e malati, spostando l’accento a questi investimenti anziché a quelli destinati a moltiplicare merci superflue, ridurre finalmente l’orario di lavoro e renderlo flessibile non per risparmiare salario ma per adattarsi ai bisogni più elementari, tornare a puntare su uno scambio fondato sul valore d’uso e non solo su quello di scambio, credo sia ormai un obiettivo possibile e un impegno urgente. Vorrei che tutte e tutti leggessero questo libro di Lia Cigarini per ritrovare il coraggio di ripensare al mondo, di ritrovare il proprio agio in una visione diversa del vivere, liberandosi dalla gabbia che ci è stata cucita addosso. In gabbia ci lasciamo Giorgia Meloni con il suo titolo di presidente del Consiglio.